Dal prologo all’epilogo, c’è tanta roba ne “La vita finta”

Un vortice di emozioni tra libertà e destino attraversa il nuovo romanzo della scrittrice molfettese Teresa Antonacci, presentato al pubblico del Gaber Club di Trani

La mia compagna, quando capita che si parli di un argomento dove c’è molto da dire, se ne esce con un’espressione a me ormai cara: “C’è tanta roba”. Tanto, che da quando la usa lei, la uso anch’io. Ebbene, nel romanzo La vita finta di Teresa Antonacci (Les Flâneurs Edizioni, 2025, pp. 214) “c’è tanta roba”. Sin da subito, nel titolo stesso, molto bello, nel prologo e fino alla fine, nell’epilogo, prima, e nella nota finale dell’autrice, dopo. Ma tempo al tempo. Ebbene, di cosa parla il romanzo, qual è il tema?

È la storia di tre giovani, Viola, Gabriele e Matteo, accumunati dalla medesima personalità Asperger (carattere, lo chiama l’autrice), anche se con tre modi diversi di essere e di agire. Chi dispone di una personalità Asperger è unico e irripetibile, ancor più, se possibile, di chi dispone di una cosiddetta personalità normale. Il loro comune denominatore: la vita finta che ognuno di loro, a suo modo, vive o, non potendo fare altro, sceglie di vivere. Una sorta di sottile, nobile ménage à trois, che si snoda tra Molfetta, la Puglia, Firenze e Parigi, con un tema ricorrente: il rapporto tra l’apparire e l’essere, o forse meglio, il vivere come ha scritto Concetta Melchionda in una sua acuta e toccante recente recensione: “La frattura tra la paura e il coraggio di essere se stessi, tra la trappola degli stereotipi soffocanti e la bellezza ardente, temeraria della vita vissuta”.

E veniamo al prologo che contiene un’espressione a mio modo di vedere folgorante: “Nulla avrebbe potuto cambiare lo stato dei fatti”. Chissà perché m’è sembrato un attacco manzoniano, una frase che forse si sarebbe potuta leggere nei Promessi sposi. E poi una breve presentazione dei personaggi, quelli principali: Gabriele, Viola e Matteo, e alcuni altri: Bianca, Anna Grazia, Alina. Presentazione che successivamente trova la sua consistenza in “Questo era Matteo” e, parlando della personalità di Viola, in “Era selettiva, questo era”. Ebbene, di nuovo come nel suo penultimo romanzo, Quasi, l’attacco della storia come momento/luogo del distacco dalla molteplicità del possibile, come momento/luogo della scelta. Il prologo che anticipa il cuore della storia, dove, parlando del rapporto tra Viola e Matteo, si legge: “Che forse era davvero arrivato il momento di mettere fine a quella vita finta, e che dovevano iniziare entrambi a crescere”. Come a dire: ecco, di questo voglio parlare, è questo che troverete nelle pagine che seguono, il racconto di un passaggio da una vita finta a una vita vera, quasi una storia di formazione, il passaggio da una vita finta adolescenziale a una vita vera, matura, da adulti.

Quel “Nulla avrebbe potuto cambiare lo stato dei fatti”, unito a “Che forse era davvero arrivato il momento di mettere fine a quella vita finta, e che dovevano iniziare entrambi a crescere”, equivale a quell’altrettanta folgorante espressione: “Questo accade”, sparata nell’introduzione al richiamato suo penultimo lavoro, Quasi, con il quale, peraltro, Teresa Antonacci ha vinto la XIV edizione del Premio Giovane Holden. L’autrice delimita, di nuovo, immediatamente il campo, lo spazio del romanzo. Mi viene da pensare che sia anche un suo bisogno di verità, una verità a cui chi dispone d’un carattere Asperger – come la stessa autrice, non solo i suoi tre eroi – tiene molto; una prova provata di onestà intellettuale: lasciare la possibilità al lettore di scegliere se vuole continuare a leggere oppure no: io ti dico subito ciò che ti aspetta, tu decidi liberamente se vuoi continuare l’avventura insieme a me. A me me piace. E molto. Quanto e più della famosa pubblicità del caffè Kimbo del grandissimo Gigi Proietti.

Gli antichi avevano chiara coscienza dell’importanza del prologo e aprivano i loro poemi con l’invocazione alla Musa. Giusto omaggio alla dea che custodisce e amministra il grande tesoro della memoria, di cui ogni mito, ogni epopea, ogni racconto fanno parte. Un’invocazione che era anche il momento della scelta, appunto; era anche un addio, come a dire: se ora mi occupo dell’ira di Achille, non dimentico per questo i cento altri episodi della guerra di Troia. Un modo per delimitare il campo, appunto, per dichiarare sin da subito che di questo mi occuperò, e non di altro, di questi personaggi parlerò, non di altri. Di nuovo, a me me piace. E molto.

Sin dal prologo si capisce che i personaggi principali – come abbiamo detto – sono tre e che dunque la storia si sarebbe avvitata intorno a loro, ma nel romanzo compaiono diversi altri personaggi, alcuni già richiamati: Bianca, Anna Grazia, Alina, e poi Andrea, Vittorio, Mara, Gianni, Valentina, Bruna. Personaggi apparentemente di contorno, ma che tuttavia danno sostanza, direi quasi danno gambe ai tre eroi, perché La vita finta è un romanzo corale, come lo sono per citare alcune irragiungibili vette: i già menzionati Promessi sposi, e poi Guerra e pace, Cent’anni di solitudine e la Recherche. Ne La vita finta non ci sono i mille personaggi di Proust, naturalmente, se non altro perché ficcarli tutti in poco più di duecento pagine non sarebbe stato certo agevole, del tutto diverso in tremila, ma troverete ugualmente un manipolo di personaggi differenti che costituiscono tanti tasselli d’un ricco puzzle. Sembra quasi – e probabilmente lo è – che se non ci fossero loro, non esisterebbero neppure i tre personaggi principali; che senza di loro non esisterebbe alcuna storia.

C’è un altro aspetto che va sottolineato. Spesso oggi in un romanzo oltre i personaggi, evidentemente, puoi trovare i luoghi in cui si muovono, talvolta – non sempre – riesci anche ad ascoltare i loro discorsi, ma non è facile assistere a un serio tentativo di svelare ciò che c’è dietro, nel loro mondo interiore. Teresa Antonacci sembra, invece, voler accompagnare il lettore, mano nella mano, per guidarlo sin dentro l’anima di Viola, Gabriele e Matteo perché ha a cuore le qualità morali e psicologiche dei suoi personaggi e sa che un attento lettore prova lo stesso desiderio di conoscenza. Di tutti i personaggi, non solo di quelli principali. Ad iniziare dal padre di Viola, Vittorio Valente, che ha inciso non poco – nel bene e nel male, forse più nel male, ma è difficile dirlo giacché la vita riserva non poche sorprese direbbe l’autrice – nella storia esistenziale di Viola. Personaggi, tutti, che si avvicendano e s’aprono al lettore lungo tutto il romanzo, talvolta pure confondendosi, ma sempre con un piglio di scrittura di grande efficacia; basta allora immergersi nel fluire delle parole che scorrono quasi inesorabilmente, basta abbandonarsi a quelle parole, non resisterle, assorbirle magari lentamente, rileggendole se necessario, come se fossero un dolce mantra.     

Ma quel “Nulla avrebbe potuto cambiare lo stato dei fatti”, unito all’incipit del primo punto/capitolo: “A volte accadono cose che non ti aspetti. Ti piovono tra capo e collo (…) e distraggono ogni intenzione, ricusando progetti, parole, opere e intenzioni”, introduce il tema del destino, che attraversa il romanzo. “Lo chiamano destino” scrive Teresa Antonacci; e: “A volte basta poco. Un inciampo, un vano pensiero, una notte insonne, occhi bassi che si dilatano negli specchi e si apre la crepa che tutto travolge”, e: “Può succedere, a volte, di non dar peso a un ritardo. Crediamo che sia tutto normale, e invece la vita ci capita improvvisa”, e ancora: “Perché, come tutto ciò che ha a che fare con la vita, è sempre difficile stabilire quando e come si inneschi una storia, quale vertigine fortuita di casi esista dietro ciò che accade all’improvviso”.

Giustamente Concetta Melchionda, a proposito delle vite di Viola, Gabriele e Matteo, parla di “tre sliding doors, apparentemente incomprensibili e misteriose”. Incomprensibili e misteriose anche a noi stessi, giacché le nostre esistenze sono soltanto in apparenza nelle nostri mani, quanto invece in quelle del dio-destino (allargandomi un poco), appunto, che non è, però, un dio classico molto al di sopra e lontano da noi, bensì un dio riposto nel fluire del tempo che attraversa e decide il corso delle nostre piccole (e grandi?) storie: “Nel fluire del tempo che tutto sa” – scrive Teresa Antonacci – perché in fondo: “Noi siamo quello che siamo, e non altro”; e nel momento dell’incidente a Viola, investita da un auto: “Il suo corpo si era librato nell’aria, diventando piuma (…) Solo ordine sparso di ricordi (…) Vita e bugie inanellate come perle, in un domino di precipizi senza scampo, senza vie di fuga”. Tutto ciò che deve accadere, accade, e noi nulla possiamo fare, né per avvalorarlo né per evitarlo. Ritorna l’espressione penetrante del prologo: “Nulla avrebbe potuto cambiare lo stato dei fatti”.

Abbiamo visto che il comune denominatore che unisce, pur nella diversità d’approccio, le esistenze di Viola, Gabriele e Matteo è la vita finta che ognuno di loro, a suo modo, vive; l’eterna frattura tra l’apparire e l’essere, tra la paura e il coraggio di essere se stessi, tra la trappola degli stereotipi soffocanti e la bellezza ardente, temeraria della vita vissuta… O forse, più semplicemente, la bellezza d’una vita normale vissuta in pace con se stessi; ne sono tutti e tre consapevoli, ma per anni non trovano la forza di reagire. Sino a che qualcosa di drammaticamente inaspettato interviene e le regole del gioco saltano in aria. Viola viene investita da un’auto – come s’è detto – e il mondo dei tre eroi si sbriciola come i vestiti – apparentemente ancora intatti – dentro un armadio aperto subito dopo l’incendio domato della camera da letto.

Scrive l’autrice a fine romanzo: “In quei giorni sospesi tra la vita e la morte, tanti nodi erano venuti al pettine, senza che Viola ne avesse cognizione o consapevolezza (…) Nel fluire del tempo che tutto sa, persino Gabriele era cambiato (…) E lei si era lasciata andare al flusso delle cose, che finalmente avevano trovato la loro ragion d’essere e il fiato della vita (…) Spingi, Viola, spingi!”. Pure Matteo era cambiato e aveva finalmente trovato la forza di dire a Gabriele cosa veramente pensava di lui: “Ché quando uno nasce stronzo, non può che restare stronzo”.  E Matteo non avrebbe più lasciato Viola: “L’avrebbe aspettata per tutta la vita se fosse stato necessario. Viola era incinta al momento dell’incidente, ma il dio-destino aveva deciso che quel bambino meritava di venire al mondo.

Ebbene, che prima o poi la vita vera avrebbe spodestato quella finta l’autrice lo aveva detto sin da subito, in armonia con il suo animo veritiero, quando nel prologo che anticipa il cuore della storia, parlando del rapporto tra Viola e Matteo, scrive – come abbiamo visto – che era finalmente giunto “il momento di mettere fine a quella vita finta, e che dovevano iniziare entrambi a crescere”. La vita vera, al fine, sostituirà la vita finta, non c’è verso sembra dirci l’autrice. La vita reale che s’impone senza appello su una vita falsa, in tutta la sua tragicità, ma anche in tutta la sua beltà. Una vita vera talvolta crudele come e più della natura, ma sempre risplendente della sua immanente genuità. Una vita vera che, anche nel dramma, libera. Una boccata d’aria pura, finalmente, dopo anni d’oppressione. Nella sua casa paterna, prima, e in quella coniugale, dopo. Vittorio Valente, il padre, e Gabriele, il marito, erano fatti della stessa pasta: maschilisti che mal digerivano la forza e l’intelligenza viva di Viola, atteggiamento non così inusuale nel clima del nostro Sud.

Quel “Spingi, Viola, spingi!” con cui si chiude il romanzo è sul serio un pezzo di bravura, frutto dell’esperienza e della maestria di una scrittrice matura giunta alla sua decima opera. Teresa Antonacci sembra voler dire: “Forza, Viola, spingi, che il nascituro vivrà più libero di quanto tu non hai sinora fatto”. È un lieto fine, ma non il classico lieto fine dove tutti vissero felici e contenti. Forse anche, ma soprattutto un lieto fine che entra magicamente nel fluire del tempo che tutto sa, perché non possiamo sottrarci al nostro destino, “perché è inutile cercare di sfuggire al futuro, se il futuro è il nostro destino”. È un lieto fine che appaga, pur non lasciando spazio a grandi euforie, però ammorbidisce l’animo, evoca, quasi invoca, la serenità di chi è consapevole che la nostra vita non è (in buona misura) nelle nostre mani. Ma, appunto, nelle mani del dio-destino.