Se c’è una istituzione, nell’ambito pubblico, che negli ultimi dieci-quindici anni è cambiata, questa è certamente l’università. Da fuori forse si nota poco, nonostante i segnali in tal senso non siano mancati. In realtà, i cambiamenti ci sono stati e non di poco rilievo. Un mio amico aziendalista raccontava che la differenza tra il pubblico e il privato era che il primo si comportava come un gatto domestico mentre il secondo come un gatto selvatico. O meglio, che il pubblico era un gatto domestico, il privato un gatto selvatico. Ebbene, l’università storicamente gatto domestico, ma la qualificazione, per l’università, meriterebbe qualche cautela in più, si sta sempre più trasformando in un gatto selvatico. E il mutamento non è dell’ultima ora ma, come si diceva, è in atto già da diversi anni.
È pur vero che il cambiamento è iniziato come conseguenza di una volontà esterna, in forza di legge. Ciò, tuttavia, non inficia il fatto incontestabile che le università – dopo un primo momento di disorientamento, peraltro del tutto giustificabile, vista la qualità non sempre eccelsa dell’attività normativa – si siano, però, presto messe in gioco, riflettendo con grande attenzione e senso di responsabilità sul propro ruolo e sulla propria missione nell’odierna società. Non che ce ne fosse un grande bisogno, giacché l’importanza strategica dell’università per il futuro del paese non può essere messa credibilmente in discussione. Semmai c’è da discutere – potrà sembrare paradossale – su cos’è l’università; chiedersi a cosa serve l’università, giacché l’idea che circola in merito, in modo più o meno esplicito, desta qualche perplessità e implica non pochi “pericoli”.
Vorrei subito sgombrare il campo sul fatto che il cambiamento in forza di legge, dall’alto, sia avvenuto perché l’università ha perso la grande occasione di rinnovarsi da dentro, dal basso, senza aspettare che qualcuno lo facesse per lei. Questo qualcuno era allora un governo di centro-destra, ma la riforma del sistema universitario della fine del 2010 è frutto, al di là delle posizioni ufficiali, di un provvedimento assolutamente bipartisan. Non poco ha giocato il fatto che da troppo tempo l’università assurgeva all’onore della cronaca per taluni aspetti poco edificanti, e l’incapacità di individuare al proprio interno gli antidoti per ovviare a questi aspetti ha fatto il resto. Il rischio, tuttavia, di gettare via il bambino con l’acqua sporca era ed è tuttora un rischio reale.
L’IDEA CHE L’UNIVERSITA’ SIA UN’IMPRESA RISALE ALLA RIFORMA DEL 2010
Quegli aspetti poco edificanti – che meriterebbero comunque un maggior approfondimento, per capirne i motivi alla base – sono stati però utilizzati come grimaldello per sferrare un colpo da maestro all’autonomia e alla possibilità di un’autorevole autogoverno delle istituzioni universitarie, seguendo l’idea piuttosto bizzarra che l’università doveva essere considerata a pieno titolo un’impresa, e che dovesse dunque comportarsi – progressivamente, ma senza sé e senza ma – come un gatto selvatico, appunto. Comprendiamo gli intenti e diamo per acquisita la buona fede di chi ha elaborato quel testo di legge, ma forse qualche-troppa semplificazione c’è stata; forse qualche riflessione in più si poteva fare, invece di appiattirsi su quegli aspetti poco edificanti che hanno trovato così ampio spazio sui mezzi di comunicazione di massa. Insomma: poteva pure starci di non facilitare l’intento di chi moriva dalla voglia di sbattere il mostro in primo pagina.
In realtà, quando mai l’università non si è comportata come un’impresa, se con questa locuzione si vuole far riferimento alla messa in campo di visioni e strategie, di progetti, di obiettivi e risultati, di un’oculata allocazione delle risorse e di una sensata attività di gestione? Direi da sempre. Ci sono università che hanno al proprio interno interi settori che si occupano di pianificazione, programmazione e controllo, non da oggi o da ieri, ma da cinquant’anni. Istituzioni che hanno fatto da apripista a vantaggio del resto del sistema. Autorevole autogoverno delle istituzioni universitarie c’è stato e continua a esserci, eccome che che se ne pensi e dica: basti guardare alla qualità delle nostre attività didattiche, all’eccellenza della nostra ricerca, riconosciuta a livello internazionale, alla competenza dei nostri professori e ricercatori, da tutti ammessa, alla preparazione dei nostri laureati che, non a caso, vengono accolti a braccia aperte in tutto il mondo. Evidenze, poi, inserite in un contesto non certo favorevole dal punto di vista dei finanziamenti statali. Per dirla con un grazioso aforisma coniato qualche tempo fa da un signore, Giuseppe Pulina, che di università se ne intende: L’Università e la Ricerca sono sempre al primo posto nei programmi dei Governi, per cui godono il privilegio di essere le prime a subire i tagli nelle finanziarie.
Allora, la questione non è che l’università doveva (deve) diventare un’impresa – questione, di per sé, tutto sommato, poco rilevante – se non fosse che quando si fa riferimento a quel termine viene spontaneo immaginare che l’università debba comportarsi come una azienda tout court; idea concepibile soltanto assumendo che tutto, ma proprio tutto, debba allinearsi alla logica comportamentale che vede ogni umana azione finalizzata al mercato, e che dunque anche la formazione delle generazioni, la ricerca della conoscenza, il sapere non sono altro che merci al servizio del sistema economico. Ma non dovrebbe funzionare così, perché non è così. Non si vuole mettere in dubbio che l’università debba gestire le risorse in modo sensato e che debba avere a cuore che i propri studenti trovino adeguate collocazioni nel mondo del lavoro; ma non è così che si dovrebbe guardare in modo esclusivo al mondo dell’università. L’università non può appiattirsi sul mercato, e non per il bene dell’università, ma per quello del paese, e nell’interesse stesso dei giovani.
IL MERCATO NON PUO’ ESSERE IL PRIMO OBIETTIVO DELLA FORMAZIONE UNIVERSITARIA
La questione era ed è se vogliamo continuare a credere, così come si dovrebbe, che autonomia e autogoverno non si dissolvono affatto in autoreferenzialità, di per sé ingiustificabile, essendo invece entrambe conseguenza e risultato di un percorso storico (Nicola da Neckir) che ha garantito nel tempo libertà nell’insegnamento, nella ricerca, nella costruzione dei saperi, nell’elaborazione e difesa di un pensiero riflessivo, all’occorrenza anche critico, fattori tutti che sono il sale di una democrazia degna di tale qualificazione. Questa è l’università: un luogo dove, seppure talvolta con qualche sbavatura, la parola democrazia mantiene intatto tutto il suo valore.
Certo, appropriandomi di un altro gustoso aforisma, nei concorsi universitari vince sempre il “migliore” e, se tu sei commissario, il “migliore” è immancabilmente il tuo allievo. Certo è successo, e potrà succedere, ma vogliamo davvero continuare a ricorrere, anzi, meglio, a rincorrere i soliti argomenti triti e ritriti, chiudendo gli occhi sul fatto che quelle libertà costituiscono uno straordinaro patrimonio culturale?
Per dirne una, riprendendo Nicola da Neckir, salta immediatamente agli occhi che non si dovrebbe considerare aberrante che uno studente decida di allungare il suo percorso universitario per un’autentica voglia di conoscenza, quand’anche fine a sé stessa; la ragionevole esigenza che si evitino, per quanto possibile, dispersioni e ritardi non può considerarsi l’esclusivo metodo con il quale è opportuno giudicare i risultati di un processo formativo, che non è fatto solo di numeri, di velocità nel conseguimento dei crediti, di punteggi finali, fattori pure da non sottovalutare, giacché ci sono anche altre significative evidenze che riguardano il livello e l’ampiezza delle conoscenze e delle capacità acquisite. Non da ultimo la capacità di elaborazione critica. Qualità da sempre essenziale, ma di cui se ne sente oggi una particolare esigenza.
UNA COMUNITA’ DI APPRENDIMENTO CON IL COMPITO DI ARRICCHIRE LA RICCHEZZA SOCIALE
L’università non può essere vista, insomma, come un’impresa che opera seguendo pedissequamente le leggi e le logiche del mercato, perché è una comunità di apprendimento, un’istituzione che ha il compito di assicurare lo sviluppo della ricchezza sociale in termini di conoscenze, abilità e consapevolezze, con rilevanti esigenze e conseguenti caratteristiche di autonomia e libertà d’azione. È vero che le università sono organizzazioni che erogano servizi, ma questi servizi non possono considerarsi alla pari di merci. Non per imbellettare l’accademia, che peraltro non ne ha bisogno, ma per il bene e il futuro dei giovani e del paese.
Certo che tutti (studenti, famiglie, mondo delle imprese, associazioni e ordini) legittimamente s’aspettano che dall’università escano dei buoni professionisti, pronti a inserirsi efficacemente e rapidamente nel mondo del lavoro; ma non vedo come si possa sottovalutare che noi tutti dovremmo pure, e forse soprattutto, auspicare che da quelle istituzioni escano altresì dei buoni cittadini, dei giovani capaci di collocarsi in modo autonomo, critico, consapevole, al livello massimo di qualità possibile, all’interno della vita del nostro paese e del mondo intero.
Prima di ragionare su qualche situazione più specifica con riferimento al sistema universitario della nostra regione (su cui torneremo prossimamente), nell’immediato può essere di qualche utilità delineare, sinteticamente, e senza alcuna pretesa di esaustività, il quadro delle sfide e delle opportunità entro il quale si muovono oggi le l’università.
SULLA FORMAZIONE UNIVERSITARIA SI FONDA IL PROGRESSO DELLA SOCIETA’
Le università sono i pilastri fondamentali per il progresso della società in ogni ambito, in Italia come nel resto del mondo. In questo senso, sono istituzioni che guardano spontaneamente al futuro, che aprono al futuro, che costruiscono il futuro. Una missione da sempre incredibilmente importante, ma se poi guardiamo all’oggi, alla velocità con la quale – in ogni ambito, appunto – si muovono le cose, la sua importanza si fa cruciale. Lo ribadisco perché, come abbiamo visto, nonostante tutti più o meno lo affermino a parole, nei fatti le cose non sono altrettanto scontate.
Il sistema universitario affronta da anni difficoltà finanziarie e difficoltà operative, legate sia alla diminuzione o, se si vuole, all’incertezza sui fondi pubblici che alla competizione interna e internazionale, che, se da un lato spinge ciascuna istituzione a fare sempre meglio, dall’altro crea non poche tensioni sia interne che esterne al sistema stesso. Gli studenti, dal canto loro, si trovano spesso gravati da tasse e costi accessori elevati (molto meno in Puglia), con un impatto non da poco sulle loro possibilità immediate e, conseguentemente, sulle prospettive future. Si lamenta poi – ma la questione, come abbiamo detto, non è così scontata – un disallineamento rispetto al mercato del lavoro. La domanda di competenze evolve molto rapidamente e l’università fa fatica, così si dice, a stare al passo. Circostanza che crea una frattura tra ciò che le imprese cercano e ciò che i neolaureati offrono, con conseguenze dirette sul tasso di occupazione giovanile.
In grande fermento è l’attività di internazionalizzazione: le università sono, da sempre, organizzazioni aperte al mondo; le collaborazioni con altri atenei europei, e non solo, sono in costante aumento, offrendo agli studenti opportunità di scambi formativi e culturali impensabili in altre epoche, e ai docenti altrettante grandi opportunità dal punto di vista scientifico; programmi come Erasmus+ o gli stessi accordi bilaterali rappresentano un formidabile trampolino di lancio per i giovani che vogliono confrontarsi con un contesto globale. Inoltre, molte università stanno promuovendo politiche attive per ridurre il proprio impatto ambientale e garantire un accesso più equo all’istruzione superiore. Borse di studio, incentivi per i più svantaggiati e campus sostenibili sono soltanto alcune delle iniziative da tempo in corso.
LE COLLABORAZIONI INTERNAZIONALI TRA ATENEI SONO SEMPRE PIU’ NUMEROSE E DETERMINANTI
La pandemia ha accelerato il passaggio verso la formazione online, un dato di fatto che non nasconde, tuttavia, alcune perplessità di fondo. È incontestabile che la tecnologia è un alleato prezioso per l’innovazione didattica; oltre alla didattica a distanza, strumenti come l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale possono arricchire l’esperienza formativa, rendendola più coinvolgente e personalizzata. Sebbene le piattaforme digitali abbiano, in più, ampliato sensibilmente l’accesso (il diritto) allo studio, rimangono tuttora irrisolte (se mai si potranno risolvere) alcune questioni non banali: il digital divide e penalizza ancora molti giovani, soprattutto quelli provenienti da contesti socio-economici svantaggiati. La didattica online ha mostrato, inoltre, non pochi limiti sotto il profilo dell’acquisizione di conoscenze e abilità, specialmente con riferimento a quelle discipline che richiedono attività pratiche o interazioni più dirette.
Per avere un quadro più esaustivo sul ruolo sociale delle università è necessario ribadire che le università non sono soltanto luoghi di apprendimento, ma anche fucine di idee, innovazione e cultura. In un’epoca caratterizzata da trasformazioni tecnologiche, cambiamenti climatici e tensioni geopolitiche, la loro missione è formare una generazione capace di affrontare le sfide globali con competenza, etica e visione. Perché ciò sia possibile, è necessario un impegno congiunto da parte di tutti: delle istituzioni accademiche, della governance, della società civile, del mondo del lavoro e degli stessi studenti, per garantire che l’istruzione universitaria rimanga accessibile, rilevante e orientata al bene comune.
LA STRADA PER IL FUTURO E’ CONIUGARE LA TRADIZIONE CON L’NNOVAZIONE
Qualche giorno fa discutevo con un amico che mi ha messo alle strette – a suo giudizio, evidentemente – affermando in modo perentorio che le università si trovano oggi davanti a un bivio: adattarsi e innovarsi o rischiare di perdere il proprio ruolo centrale nella società.
Premesso che non è mai facile scegliere un’unica strada, e una volta per tutte, mi viene da dire che forse, ma certamente in questo caso, non c’è proprio nulla da scegliere: basta coniugare con equilibrio l’innovazione con la tradizione. Ed è quello che le università hanno storicamente fatto. Da secoli custodiscono la memoria delle idee e delle azioni umane e, nel contempo, da secoli costruiscono il futuro di quelle stesse idee e azioni. Il futuro passa dalle loro aule, dai loro laboratori e dalla loro capacità di ispirare e motivare gli studenti di oggi a diventare i leader, gli scienziati, i pensatori, la classe dirigente di domani. E anche – ne varrebbe sul serio la pena – dei buoni cittadini di domani.
Nelle immagini, alcuni scorci dell’università di Bari