Nessuno è un’isola, nonostante il mare in burrasca

La guerra, la povertà, la crisi climatica insieme al desiderio di rinascita nella rassegna World Press Photo in corso al Teatro Margherita di Bari

Il 10 ottobre 2024, giorno in cui è stato conferito il nobel per la letteratura ad Han Kang, scrittrice sudcoreana, già vincitrice di numerosi premi internazionali, a Bari è stata inaugurata la mostra World Press Photo (clicca qui). Una coincidenza fortunata, in un certo senso, perché l’esposizione (aperta fino al 31 dicembre) presenta una serie di elementi in comune con l’opera di questa scrittrice così lontana da noi, eppure, così vicina. Un’artista che parla di solitudine, di dolore personale e collettivo. Di come ogni piccola storia sia legata ai grandi avvenimenti. Episodi giganteschi, che hanno risonanza anche nelle piccole storie. 

Han Kang descrive, tra l’altro, la mancanza di comunicazione tra noi e gli altri. La difficoltà nel dire ciò che serbiamo dentro di noi. Ma, allo stesso tempo, la capacità umana di resistere, di venir fuori da quello stato di estraneità, di solitudine, proprio grazie a quella “social catena” di cui parlava Leopardi. Il tema della mostra internazionale, giunta alla sua 67esima edizione, è questo.

 

Si parla di guerra, naturalmente, come nelle precedenti edizioni, di malattie, di crisi climatica, di povertà. Ma diversamente dal passato, la prospettiva non è così tanto oscura. Pur raccontando avvenimenti tragici, si coglie in ogni scatto il bagliore della speranza. La possibilità che da tragedie, come quelle che si vivono in tanti luoghi del mondo, non così lontani da noi, possa scaturire la rinascita. Si intuisce la speranza di poter ricominciare, ma in modo degno, più giusto nei confronti di tutti.

Il maggior pregio della mostra è proprio voler raccontare parti del mondo lontane dalle nostre; il “sud del mondo”, in un certo senso. Il Sud America, il Sud-est asiatico, l’Oceania ma anche l’Africa, l’Asia, l’Europa. Soprattutto storie che non si conoscono e di cui i telegiornali non parlano, su cui i media sorvolano silenti. Storie tragiche e oscure, ma anche racconti di vita, come quello della figlia di un esploratore che raccoglie esemplari di una rara farfalla. Racconti di persone che, anche se rischiano la vita ogni giorno a causa delle guerre o del cambiamento climatico, combattono per sopravvivere. Si fanno forza a vicenda, galleggiano in questo mare indistinto, in queste acque agitate e torbide.

Vi è una foto che è un po’ la silloge dell’intera mostra e, in fondo, anche dei tempi attuali: un adulto e una bambina (probabilmente un nonno con la nipote) che galleggiano nell’acqua scura. Sembra stiano nuotando in un lago o in una palude, tanto è scura l’acqua. Eppure, a ben guardare, si intravede in lontananza un isolotto verdeggiante. Un’isola esotica, uno di quei paradisi in cui molti desidererebbero vivere per sempre. Le loro teste emergono circondate dalle alghe. Il loro sguardo è proiettato in avanti, verso l’orizzonte. Un simbolo di resistenza, di lotta. Un invito a non lasciarsi sopraffare dalla vita, a nuotare con più forza per restare a galla. 

Sono vite, storie ed emozioni quelle cristallizzate negli scatti della World Press Photo Exhibition. Sono storie di donne e di uomini, di migrazioni, di diritti civili e sociali quelle immortalate nei 130 scatti vincitori del contest. Fotografie che schiudono, ancora una volta, un’autentica finestra sul mondo. Un chiaro memento che coincide con la famosa frase di John Donne: “nessun uomo è un’isola”. 

A vincere il World Press Photo of the Year, il premio più importante e ambito, è stato il fotografo palestinese Mohammed Salem con un’immagine scattata per Reuters il 17 ottobre del 2023, all’interno dell’obitorio dell’ospedale di Nasser, a Gaza. Lo scatto mostra il drammatico momento in cui una donna palestinese di 36 anni, Inas Abu Maamar, stringe il corpo della nipote Saly, di soli 5 anni, rimasta uccisa insieme ad altri quattro membri della famiglia durante un attacco missilistico israeliano che ha colpito la sua casa. Un abbraccio struggente, terribile, che esprime il dolore di una perdita che riguarda tutti noi. “È il fallimento del nostro ruolo di esseri umani”, il commento della presidente della giuria, Fiona Shields. “Un monito che il fotografo fa a tutti noi”, spiega. Lo stesso autore descrive questa foto come un “momento forte e triste che riassume il significato più ampio di quanto stava accadendo nella Striscia di Gaza“.

La foto con cui Mohammed Salem ha vinto il World Press Photo of the Year

Uno degli scatti più iconici, esposti al Margherita, è senz’altro quello della fotografa sudafricana Lee-Ann Olwage. Documenta la vita del novantunenne Paul Rakotozandriny, chiamato Dada Paul, affetto da demenza senile da 11 anni e assistito da sua figlia Fara Rafaraniriana. In Madagascar, l’assenza di un’opera di sensibilizzazione, riguardo al tema della demenza e dei disturbi mentali, fa sì che le persone che ne soffrono siano spesso stigmatizzate ed escluse. Gli scatti di Olwage raccontano la storia di Fara e Dada Paul giorno per giorno: cura, accudimento e affetto filiale, all’insegna del “valim-babena”, il dovere dei figli adulti di aiutare i propri genitori. Una responsabilità che, nella cultura malgascia, è considerata vera e propria espressione d’amore. La restituzione di un debito morale, da parte dei figli, nei confronti dei genitori che li hanno cresciuti.

Il World Press Photo Long-Term Project è stato consegnato al fotografo venezuelano Alejandro Cegarra, per I due muri, progetto realizzato per il New York Times. A partire dal 2019, il Messico applica rigide politiche di immigrazione molto simili a quelle degli Stati Uniti. E le famiglie dei migranti – per sfuggire ad un clima di disordine politico, alla violenza e alla corruzione –  sono costrette a lasciare la propria casa. Il fotografo, egli stesso emigrato dal Venezuela, ha voluto documentare la disperata situazione di queste comunità e mettere in luce, con rispetto e sensibilità, la loro resilienza.

In particolare, il reportage si focalizza sull’esperienza dei migranti che cercano di raggiungere gli Stati Uniti a bordo del treno chiamato “la bestia”. Le foto mostrano questi ragazzi mentre si arrampicano sulle carrozze, restano nascosti al loro interno anche per giorni interi, mentre camminano sul tetto del treno. Nei loro volti è impressa la disperazione. Il desiderio di ottenere, ad ogni costo, una vita migliore.

All’interno della mostra è presente un memoriale dedicato ai fotografi caduti, mentre erano al lavoro, a partire dal 1992 ad oggi. Un elenco di oltre millecinquecento giornalisti che hanno contribuito ad affermare, anche a costo della propria vita, il diritto e la libertà di espressione. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ), solo nel 2023, sono stati 99 i giornalisti e gli operatori dei media uccisi in tutto il mondo. Molti hanno subito minacce di violenza e incarcerazione semplicemente per aver svolto la propria attività. Una situazione che, purtroppo, è ben lontana dal risolversi.

Visti i tempi e la censura operata ai danni di chi svolge la professione (l’Italia è al 46esimo posto, nella classifica mondiale, per libertà di pensiero e di espressione; un gradino più in basso rispetto allo scorso anno) appare più che mai necessaria la figura del giornalista, per fornire un quadro effettivo e completo sulla realtà in cui viviamo, fin troppo edulcorata dai media. World Press Photo ci consente di guardare in faccia il mondo, ma senza negare la possibilità di un cambiamento all’orizzonte, di una vita diversa. Una luce nelle tenebre: le storie di chi ogni giorno lotta per continuare ad essere un uomo.