Trump come Cleveland, anzi all’opposto

E' la seconda volta, in 243 anni, che un presidente torna alla Casa Bianca quattro anni dopo il primo mandato, ma con un'idea della democrazia completamente diversa

Dichiarando vittoria dal palco di West Palm Beach, la notte del 5 novembre, Donald Trump ha ripetuto di aver “fatto la storia”. In effetti era successo soltanto una volta, in 243 anni di storia americana, che un presidente vincesse un secondo mandato quattro anni dopo la scadenza del primo. Ma quando Grover Cleveland venne rieletto presidente degli Stati Uniti nel 1893, dopo aver perso la presidenza nel 1889, aveva fama di essere un abile economista e uno strenuo difensore della Costituzione.

Non aveva subito nessuna condanna penale, né tanto meno era stato rinviato a giudizio. Non aveva platealmente, e con il ricorso alla forza, cercato di capovolgere il risultato delle precedenti elezioni. Non aveva promesso in campagna elettorale che avrebbe usato l’esercito contro i suoi oppositori, che avrebbe licenziato migliaia di dipendenti pubblici, che avrebbe deportato quattro milioni di immigrati illegali, che non avrebbe rispettato l’indipendenza della magistratura, che avrebbe sventato un non meglio precisato complotto contro la salute dei cittadini, che avrebbe punito i suoi critici e ricompensato i suoi sostenitori, che sarebbe stato un “dittatore” anche se solo il primo giorno.

Eppure Trump ha vinto di nuovo, e le dimensioni della sua seconda vittoria hanno sorpreso gli osservatori più attenti: ha vinto il voto popolare, quando nel 2016 aveva ottenuto due milioni di voti in meno di Hillary Clinton; ha vinto in tutti i cosiddetti “swing state” e ne ha conquistati tre ai democratici; suoi candidati – più che  repubblicani dovrebbero chiamarsi trumpiani, dato che uno dei sinistri successi di Trump è quello di aver trasformato il GOP (Grand Old Party) a sua immagine e somiglianza – hanno vinto nelle competizioni locali ottenendo almeno tre nuovi senatori, e dando al presidente eletto la maggioranza, forse nei due rami del parlamento.

È possibile stilare una lista di singoli punti su cui la propaganda di Trump, efficacemente sostenuta dal socio Elon Musk, ha potuto capitalizzare consensi. Per cominciare, la percezione da parte di gran parte dell’elettorato di un declino economico, o comunque di una situazione economica insoddisfacente che non rifletteva i dati economici reali, tutt’altro che negativi, contrapposta alla prospettiva di un boom economico, della nuova “età dell’oro” promessa da Trump.

A seguire, i problemi causati dall’immigrazione illegale, ingigantiti e drammatizzati mediante la diffusione di storie spesso ridicole e false, ma che un’incalzante propaganda sui media e sui social è riuscita a far apparire come reali; il personale carisma del candidato che ha continuato a far presa su larghe fasce dell’elettorato, non solo bianco e non solo maschile, nonostante le cadute, gli errori, il disprezzo della legge, le palesi menzogne, gli insulti e gli attacchi volgari a cui Trump ha dimostrato di non poter rinunciare; un ancora diffuso sessismo: il fatto che in entrambe le sue vittoriose campagne elettorali egli abbia fronteggiato una donna potrebbe indicare che la maggioranza degli elettori americani faccia ancora difficoltà a immaginare una donna nello studio ovale della Casa Bianca. Ancora: la percezione da parte di molti elettori democratici che il proprio partito di riferimento si fosse spostato troppo a sinistra su alcune questioni non strettamente politiche come i diritti per i transgender, allineandosi con quella che viene genericamente definita cultura “woke”: anche in questo caso la propaganda trumpiana ha investito molti milioni di dollari (65 soltanto nell’ultimo mese di campagna secondo l’analisi del New York Times) indicando come una causa della diffusione di tale cultura le posizioni prese da Kamala Harris quando era procuratore generale in California, arrivando ad affermare che a molti bambini e adolescenti veniva facilitato il cambio di sesso nelle scuole pubbliche all’insaputa dei genitori.

A tutto ciò si deve aggiungere il tempo che Trump ha avuto a disposizione: la sua campagna è durata quattro anni contro i quattro mesi di Kamala Harris, la quale non è riuscita a separare la propria figura politica da quella del presidente in carica, nonostante la sua superiore eloquenza e la buona performance nell’unico dibattito televisivo. Più in generale, l’aggressiva retorica di Trump e la sua promessa di sovvertire il sistema politico del paese hanno fatto presa su decine di milioni di elettori i quali, scontenti dello status quo e timorosi di veder naufragare il sogno americano, hanno individuato in Trump l’uomo forte anti-establishment capace di difendere i loro interessi.

È stata una scelta azzardata. Quell’uomo aveva già dimostrato di essere pronto a traversare il Rubicone, e ha dimostrato che la sua leadership politica, come quella imprenditoriale, trascende la legge e le istituzioni, confidando nell’assoluta lealtà dei suoi generali. È legittimo vedere nel ritorno di Trump alla presidenza una reale minaccia per il sistema democratico così come si è caratterizzato negli ultimi ottanta anni nel mondo occidentale. I cosiddetti padri fondatori della nazione americana avevano però previsto la possibilità che un giorno gli elettori potessero eleggere un presidente con tendenze autoritarie, e a tale scopo inserirono nella costituzione misure per prevenire che questi sottomettesse la legge ai propri obiettivi, separando i poteri e garantendo la libertà di pensiero e della stampa, riconoscendo ai cittadini il diritto di riunirsi per manifestare pacificamente il proprio dissenso e di rivolgere petizioni al governo per correggerne gli errori. Circa sessantotto milioni di americani, il 47.6% degli elettori, non hanno votato per Trump. L’esistenza di quei sacrosanti diritti induce a sperare che l’involuzione verso la dittatura non sia inevitabile.