Acciaierie d’Italia? L’ennesimo capitolo dell’Italia dei veleni

Mentre si apre la possibilità di un rilancio per lo stabilimento, la decisione della corte d'appello di rifare il processo rischia di cancellare le condanne e far cadere in prescrizione i reati

La presenza dello stato nell’ex Ilva? “Sembra non porti fortuna”. Lo ha dichiarato il ministro delle Imprese e Made in Italy, Adolfo Urso, in questi giorni alla Fiera del Levante. Una dichiarazione che fa riferimento al recente fallimento della partnership in Acciaierie d’Italia (oggi in amministrazione straordinaria) tra ArcelorMittal e Invitalia. Ma in tal modo Urso ha risposto anche al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, per il quale è invece “fondamentale che ci sia un forte presidio all’interno della società e nelle sue attività da parte dello stato per evitare gli errori del passato” perché “non si può lasciare un privato da solo a fare quello che gli pare”.

I piani per il rilancio dello stabilimento grazie alla decarbonizzazione

In realtà, Urso si è detto soddisfatto per i quindici player nazionali e internazionali candidati all’acquisizione dello stabilimento: “Dopo anni di inadempienze abbiamo messo mano seriamente all’ex Ilva, da rilanciare attraverso la decarbonizzazione”. I candidati alla gestione del colosso della siderurgia dovranno presentare entro il 30 novembre i propri progetti, “in modo da affidare nella prima parte del prossimo anno gli impianti ad un player industriale capace di rilanciare la siderurgia italiana”, ha aggiunto il ministro.

Se la situazione industriale mostra, dunque, alcuni spiragli di luce, sul piano giudiziario la vicenda fa registrare un pesante tonfo indietro: il maxi-processo Ambiente Svenduto dovrà, infatti, ripartire da zero. Dodici anni di udienze, perizie e testimonianze non hanno più alcun valore. L’ormai tristemente famosa sentenza sulla gestione “disastrosa” dell’Ilva da parte della famiglia Riva, quella che mise “in pericolo concreto la vita e l’integrità fisica” di lavoratori e cittadini del quartiere Tamburi di Taranto, arrecando “un gravissimo pericolo per l’incolumità-salute pubblica” a causa degli interventi per “favorire la produzione” di acciaio, non esiste più. È stata cancellata, insieme alle pene per dirigenti, manager, politici e amministratori locali, perché non erano i giudici della Corte d’assise tarantina a dover stabilire se ci fu un disastro ambientale e chi tra i 37 imputati fosse colpevole e chi no.

La decisione di rifare il processo

Lo ha stabilito la Corte d’assise d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, accogliendo la questione sollevata da alcuni avvocati della difesa. Di rifare il processo se ne occuperanno i magistrati di Potenza, con un rischio enorme: la prescrizione, che rischia di cancellare buona parte dei reati, lasciando una città intera senza giustizia e senza una verità accertata in un’aula di tribunale. Tra quindici giorni, quando il collegio presieduto dal giudice Antonio Del Coco depositerà le motivazioni dell’ordinanza, si capirà la ragione giuridica con la quale sono state stracciate le 3.700 pagine della sentenza alla base delle condanne.

In primo grado furono 26 le condanne nei confronti di dirigenti della fabbrica, manager e politici, per circa 270 anni di carcere. La Corte d’assise stabilì sia la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici, per una somma di 2,1 miliardi di euro.

La sentenza di primo grado

La sentenza di primo grado, emessa il 31 maggio 2021, si chiuse con 26 condanne nei confronti di dirigenti della fabbrica, manager e politici. I giudici inflissero 22 anni a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la ‘longa manus’ dei Riva verso istituzioni e politica e nel frattempo deceduto, fu condannato a 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. I principali fiduciari dell’acciaieria – Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino – considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva furono condannati a 18 anni e 6 mesi di pena.

Mentre all’ex governatore della Regione Puglia, Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, fu comminata la pena di 3 anni e 6 mesi. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido venne condannato a 3 anni. Stessa pena per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. Per l’ex consulente della procura Lorenzo Liberti una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato.

Il trasferimento del processo a Potenza

Un cosa, però, è già certa: la decisione della Corte d’assise d’appello di Lecce nasce dalla richiesta avanzata dai legali Giandomenico Caiazza, Pasquale Annichiarico e Luca Perrone, rispettivamente difensori di Girolamo Archinà, ex responsabile relazioni istituzionali di Ilva, e dei fratelli Riva. I legali avevano contestato che alcuni giudici vivessero negli stessi quartieri in cui abitano persone costituitesi parte civile durante il dibattimento e considerate degne di risarcimento dal collegio. Ma, soprattutto, che tra le parti civili figurassero due giudici onorari tarantini, attivi quando avvennero i fatti contestati. La vicenda era già stata affrontata in primo grado, ma la Corte d’assise respinse l’eccezione delle difese sostenendo che quando ebbe inizio il processo i due giudici non appartenevano più all’ordine giudiziario e quindi non potevano esserci condizionamenti sulla decisione finale.

La protesta di Peacelink, Slai Cobas e Medicina Democratica

Riproposta la stessa obiezione all’inizio del processo d’appello, stavolta l’eccezione ha trovato accoglimento. Lo spostamento, lamentano Alessandro Marescotti e Fulvia Gravame di Peacelink, “ha conseguenze gravissime per l’intera comunità tarantina” con un “allungamento dei tempi della giustizia” e “lo spettro dell’impunità”. A Taranto, secondo il deputato di Avs Angelo Bonelli, “si infligge l’ennesima ferita dopo il disastro sanitario”. Duro il commento di Gian Luca Vitale, avvocato di Slai Cobas e Medicina Democratica: “Il trasferimento non solo rischia di mettere una pietra tombale sul più grande processo per disastro ambientale celebrato in Italia – dice – ma può creare un pericolosissimo precedente, un’arma in mano agli inquinatori: più ampio e grave è l’inquinamento, più sarà possibile dire che tra le potenziali vittime ci sono dei giudici e, quindi, più facile sarà annullare il processo”.

Una vicenda, quella dell’Ilva, che travalica i confini pugliesi e diventa un monito per tutto il Paese. L’Italia, infatti, è stata scenario di numerosi disastri ambientali che hanno causato migliaia di vittime e sono finiti nelle aule dei tribunali, per sfociare il più delle volte in archiviazioni, assoluzioni, prescrizioni. La famosa Italia dei veleni: amianto, metalli pesanti, petrolio, Pfas, discariche. Da nord a sud l’inquinamento fa migliaia di morti ma non ci sono mai colpevoli.

Le foto dell’Ilva di Uliano Lucas sono tratte da Realta’ del lavoro nel mezzogiorno d’Italia (Tommaso Musolini Editore, Torino, 1980)