La violenza in corsia certifica il collasso del sistema sanitario

Le aggressioni al policlinico di Foggia riflettono i drammatici problemi della sanità, devastata negli ultimi dieci anni da tagli ai bilanci, carenza di personale e interminabili liste d'attesa

Si sono ritrovati in trecento, a Foggia, di fronte all’igresso del policlinico, per manifestare contro le aggressioni al personale sanitario. La protesta, indetta dai sindacati, ha coinvolto medici e infermieri, scesi in piazza dopo le violenze subite negli ultimi giorni. I medici hanno raccontato le difficoltà di ogni giorno e le minacce continue, mentre molte colleghe hanno confessato di avere paura a rimanere sole nei presidi di continuità assistenziale, soprattutto nelle ore notturne. “Abbiamo paura di lavorare in queste condizioni. Non nascondo che anch’io, spesso, sono stata vittima di minacce e aggressioni”, ha raccontato Alessandra Manzi, che lavora nella sede dell’ex guardia medica della provincia.

Il nove settembre, un giovane di 18 anni, giunto in ospedale in stato di ansia, aveva picchiato tre infermieri ed era stato tratto in arrresto con l’accusa di lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Poche ore dopo, nel pomeriggio, il figlio di un paziente, in attesa al pronto soccorso, si era scagliato contro due infermieri e un vigilante. L’aggressore aveva un braccio ingessato col quale aveva colpito il personale sanitario: una reazione che sarebbe stata causata dal fatto che il genitore, in attesa dell’assegnazione del codice che definisce il tipo di emergenza, si era sentito male.

Le due aggressioni sono seguite a quella più eclatante, veriificatasi il quattro settembre nel reparto di chirurgia toracica, da parte di parenti e amici di una ragazza di ventitreanni anni deceduta a seguito di un intervento. In quel caso, erano state una cinquantina le persone giunte a seminare il panico nel reparto, ferendo tre sanitari e costringendo altri a barricarsi in ambulatorio. Dopo le violenze a Foggia, un medico del reparto di urologia dell’ospedale di Casarano, in provincia di Lecce, è stato colpito con un calcio da un paziente che era in attesa di essere sottoposto a una cistoscopia.

In difesa del personale sanitario in servizio a Foggia si era subito schierata la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (FNOMCeO): “Basta, non se ne può più! O il governo e la Regione intervengono subito o si chiuda l’ospedale. I medici e gli infermieri sono là per lavorare, per salvare vite: non sono bersagli mobili, punching ball pronti a essere colpiti più volte al giorno”, ha dichiarato il presidente della federazione Filippo Anelli. Il quale ha poi scritto alla premier chiedendo di utilizzare i soldi del Pnrr per la sicurezza: “Abbiamo bisogno di un piano complessivo che contenga diverse misure da attuare subito, altrimenti ce ne andiamo tutti. Siamo stanchi, i colleghi sono disillusi e demotivati”.  Aggiungendo: “Mandate l’esercito, mandate chi volete, ma i medici devono essere protetti, devono lavorare in sicurezza, con serenità, devono uscire di casa senza chiedersi se rientreranno a fine turno. Per quanto riguarda le forze politiche abbiamo apprezzato che ci sia stata un’ondata di indignazione trasversale, che ha portato a interrogazioni e progetti di legge. Ma non possiamo aspettare, non abbiamo più tempo: al governo chiediamo un decreto-legge che sani, con urgenza, questa situazione, che è diventata ormai insostenibile in tutta l’Italia”.

Messaggi di solidarietà alle vittime di violenza del policlinico di Foggia sono giunti anche da medici e infermieri della Campania, un’altra regione in cui si sono verificate aggressioni ai danni dei sanitari e che ha visto manifestare il personale del Cardarelli di Napoli per chiedere più tutela e sostegno. Nel 2023, secondo i dati dell’Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri, le aggressioni sono state ben 16mila, di cui un terzo fisiche e nel 70% dei casi verso donne. Il vaso è colmo è il succo dei tanti appelli lanciati dagli Ordini dei medici ai sindacati di categoria fino alla Federazione delle asl e ospedali (Fiaso), che chiede ulteriori misure di deterrenza a partire dal fermo di polizia, con l’istituzione della flagranza differita.

La sicurezza di chi esercita la professione medica e sanitaria è diventata una questione nazionale, drammaticamente attuale e rappresentativa di una grave regressione sociale e culturale del nostro paese. È impensabile essere aggrediti mentre si svolge una professione d’aiuto per prepararsi alla quale ci sono voluti più di dieci anni di studio, enormi sacrifici e dispendio di risorse economiche, individuali e collettive. Formare un medico costa alla stato circa 150mila euro e lo stato poco o nulla fa per arginare l’abbandono della professione o per impedire le fughe all’estero, né per rendere più attrattive e sicure le condizioni di lavoro di chi sceglie di esercitare la professione nell’ambito del Servizio sanitario nazionale.

Sulle difficoltà dei Pronto Soccorso, ad aprile 2024 la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati aveva avviato un’indagine conoscitiva. Nel documento conclusivo si afferma che la difficile situazione in cui si ritrova la medicina di emergenza-urgenza oggi in Italia rappresenta la “punta dell’iceberg” di un sistema pubblico al collasso. Tra le cause principali: la carenza di personale medico e infermieristico (si stima che nel settore dell’emergenza-urgenza manchino oltre 4.500 medici e circa 10.000 infermieri), tempi di attesa lunghi per il ricovero (boarding), considerata la carenza di posti letto disponibili nei reparti di degenza, difficoltà a garantire un turnover adeguato, elevato numero di accessi impropri anche per le lunghissime liste d’attesa per prestazioni e visite specialistiche.

Qui si avverte di più la fragilità del nostro Servizio sanitario nazionale, causata da più di dieci anni di tagli lineari effettuati da governi di destra, di sinistra o dai tecnici. Tagli che hanno finito (anche per un “preciso disegno”) per favorire la sanità privata. Per non dire della nuova, enorme tegola pronta a cadere sulla testa dei poveri cittadini-pazienti delle nuove misure imposte dall’autonomia differenziata, con il governo che ancora oggi non si è espresso sull’obbligo di assicurare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) per tutti i cittadini in oigni parte del paese.

Resta, tuttavia, la considerazione che la mancata risposta (vera o presunta) a esigenze di salute non può essere una giustificazione alla violenza. La democrazia, e la salute collettiva ne è uno dei capisaldi, non è scontata e va difesa.