La gelosia è il tarlo che distrugge l’amore. L’originale metafora utilizzata da Ovidio nelle sue elegie, attraverso cui metteva in guardia i lettori dal coltivare relazioni amorose morbose ed infide, attanaglia e oscura le menti dei personaggi dell’Otello verdiano, tratto dall’omonimo dramma di William Shakespeare su libretto di Arrigo Boito. Nella tragedia musicata dal genio di Busseto – ultimo prestigioso titolo della stagione del Petruzzelli prima della pausa estiva – la gelosia diviene una creatura sordida e ferina, in grado di insinuarsi silenziosamente nell’animo, lambendo la carne e lo spirito.
A cadere tra le sue spire è Otello, vittima inconsapevole della passione che lo divora rendendolo incapace di discernere il bene dal male, la verità dalla menzogna. La lacerante tara da cui è miseramente pervaso fende e altera senza troppi indugi gli equilibri della psiche e di un temperamento risoluto che, tempi addietro, gli ha consentito di sbaragliare la minaccia musulmana dalla sua Venezia. Il generale dell’Armata Veneta, ormai declassato dai fasti della sua mansione, si trova ad essere risucchiato dal vortice della sudditanza consegnando il suo destino nelle mani di chi, del nutrito contingente navale sbarcato a Cipro al suo fianco, lo inganna: Jago.
L’invidioso alfiere incarna nel suo ruolo i tre principali motivi ricorrenti dei drammi shakespeariani – la sete di potere, l’accecante invidia e la spietata vendetta – dimostrando vile scaltrezza nel tessere trame di eventi funesti che assoggettano personaggi primari e secondari alle sue bieche volontà. L’abile macchinatore di misfatti cova invidia nei confronti di Cassio, il membro dell’equipaggio più fidato che Otello ha nominato luogotenente. E dello stesso si serve per architettare un intrigo d’amore destinato a capovolgere le sorte benevola che finora arride al Moro. Cassio è stordito dai bagordi dell’euforica ciurma dedita ai piaceri del vino, lasciandosi dapprima coinvolgere dai ripetuti inviti a brindare alla fecondità di Venezia e, successivamente, precipitando nelle grinfie di Jago.
La sua débâcle si dispiega con progressiva rapidità: coinvolto nella rissa mortale con Montano, appare degradato agli occhi di Otello a cui non resta che affidare il comando delle operazioni militari a Jago. A quest’ultimo non basta vedere il suo collega denigrato al cospetto del generale, ma infierisce ancor di più sulla frustrazione del luogotenente e sul suo compromesso equilibrio psicofisico. L’alfiere affida a Cassio il delicato fazzoletto che un tempo Otello aveva offerto come pegno d’amore alla sua diletta Desdemona e che lo stesso Jago aveva sottratto dalle mani dell’ancella della donna, Emilia.
Il vile stratagemma è corroborato da un profluvio di parole fallaci, sussurrate piano nelle orecchie di Otello e scandite parimenti ad una verità inoppugnabile: Cassio nei sogni pronuncia a fior di labbra il nome di Desdemona, sorride pensando a lei, la desidera con ardore. E Otello, memore di quel bacio scambiato con la sua amata sotto la costellazione di Venere, perisce sotto i dardi di una gelosia che non ammette tregua. “A terra! E piangi!“, tuona sdegnato Otello nei confronti dell’inorridita Desdemona. La donna che in passato aveva accolto di lui fortune e sventure, facendolo diventare un carismatico e valoroso generale, si dispera. E a nulla valgono le professioni di purezza e di castità, valori di cui ella si dichiara ancora in possesso. Neppure le numerose preghiere alla Madonna, con la quale Desdemona condivide il candore virginale.
Il tempestoso turbamento che assale l’animo di Otello, in merito alla ricerca della verità, riecheggia senza dubbio nell’iconico interrogativo di Amleto: “to be or not to be, that is the question” (essere o non essere, questo è il dilemma). L’angosciante frenesia di indagine sul vero lo porta a perdere il controllo sugli eventi, su se stesso e sulla sua sposa barbaramente strangolata sul talamo nuziale con la coroncina del rosario che le cinge il collo. E quando l’ancella Emilia irrompe nella stanza della sua padrona informando tardivamente dell’inganno ordito da Jago, Otello si trafigge con la sua spada.
Lungi dall’aderire alla retorica del bello ma procedendo con analisi disincantata, le suggestioni del capolavoro verdiano finora descritte – in scena al Petruzzelli – si riverberano nell’accurata regia di Francesco Micheli e nel fascinoso allestimento di Edoardo Sanchi, importato dal Teatro La Fenice di Venezia. Un fondale scenico che profuma d’Oriente ospita in un’enorme installazione cubica la camera di Dedemona, ricca di pareti intarsiate, tappeti e cuscini damascati ed eleganti abiti broccati.
Sull’imponente congegno meccanico in continua e lenta rotazione, illuminato dal baluginio di costellazioni e segni zodiacali, rifulge la ieratica presenza della Madonna che sfila in un mesto corteo processionale. Il simulacro della Vergine, che calpesta sotto i piedi un maligno serpente, abbraccia le accorate preghiere di Desdemona.
Una partitura orchestrale vibrante, potente, roboante grazie alla bacchetta di Giacomo Sagripanti, è pronta a stupire lo spettatore già dall’esordio con squarci di luce provenienti dall’alto, accompagnati dal rullio delle percussioni, e l’ingresso stentoreo dei fiati, al suono dei quali si solleva un azzurro pannello su cui campeggiano di bianco le parole di Jago: “Io odio il Moro. Si dice che sotto le lenzuola si sia fatto gli affari miei. Non avrò pace finché la sua anima non sarà avvelenata dalla stessa mostruosa che rode in me le interiora“.
La scritta si dissolve nel brillio delle costellazioni che si intravedono in filigrana. Un’armonia cosmica minata dall’accecante gelosia e dal folle struggimento del protagonista Otello, magistralmente interpretato da Marco Berti. Il suo è un fraseggio limpido e ben scandito che consente appieno di ammirare la bellezza del libretto boitiano.
Pulito e leggiadro il timbro vocale dell’acclamatissima giapponese Vittoria Yeo nei panni di Desdemona. Bene anche l’inerme Cassio, Zizhao Guo, e il perfido Jago, Vladimir Stoyanov, che al calar del sipario si spogliano del loro tenebroso ruolo e applaudono i due amanti, accomiatati dalla vita e ricongiunti in morte sotto la costellazione del Leone e la benevolenza di Venere.
Le foto dell’Otello, in scena al Petruzzelli di Bari sono di Clarissa Lapolla