Nulla è più resiliente di un cuore frangibile

La mostra di Ezia Mitolo alla Galleria Orizzonti di Ostuni è una perfetta sintesi della sua ricerca artistica, alla scoperta dell'universo "multimediale" delle emozioni

Ezia Mitolo è una di quelle artiste che incroci per caso e ti resta dentro tutta la vita. Una sensibilità disarmante è trasposta in ogni frammento di vita, o ciò che resta di essa, abbozzato nelle sculture astratte, nei disegni, nelle foto come nelle installazioni, con l’allusione a ciò da cui tutto ha origine, a cui tutto torna, alla culla dell’essenza stessa. Ogni particella palpitante diviene aneddoto, traccia di ciò che racconta nel suo semplice transitare. Una poetica che ritroviamo in tutta la sua complessità ma anche “leggerezza” in Frangibile, la personale allestita nella nuova project room della Galleria Orizzonti di Ostuni.

La purezza della forma annientata con il candore di mani bambine imbarazza quasi, nel suo metamorfico evolversi e abbandonarsi, avvinto dal quel furor che l’artista invano cerca di acquietare. Quella melodia cadenzata e straziante che non abbandona mai le anime belle. Un lento pulsare, dilatarsi oltre il percettibile, fino a fagocitare anche quelle emozioni che dentro battono la via di fuga.

Il canale che ci connette al cuore si apre, si chiude, lascia fuggire ciò che resta e disperato tenta di accogliere l’inattesa missiva del destino. Bocche carnose serrate, digrignate, dilatate, volti senza volto, sospiri senza nome. Pace senza pace. Solo labbra, accessi a imperscrutabili tangenze. È come se quell’etereo passaggio vitale chiedesse sentenza. Ascoltare? Sfiorare? Accarezzare? Separare? Unire?

Le sculture di Ezia Mitolo esigono il contatto, seguendo in punta di dita quel contorno che non c’è, che devi intuire tra le pieghe accennate, tra le punte di zavorre spesso sospese a quel filo che non si riesce a falciare, perché anche le forbici sono nascoste altrove. E gli strappi lacerano l’epidermide, annientano, allontanano ma poi accolgono nel vuoto che crea una rinnovata prospettiva. Non solo cicatrice e offesa, dunque, invano rammendata maldestramente, ma rifioritura da ciò che l’apparenza vuole fragile.

Così come il rosso sfacciato invade, abbraccia fino a soffocare di passione senza sosta, come corazza che protegge e occulta, ostentata con indomita dignità. Oppure imbratta quei passaggi, varchi verso l’ignoto profumatamente seducente, come feritoie che ammiccano, tinte di dolore da cui germina spesso l’incanto. E tutto trova quel senso sperduto negli angoli dove anche i fiori si sbriciolano e rinascono tra le macerie, dove l’insulto e l’abbandono seppelliscono la bellezza.

Abbiamo ascoltato l’artista su alcune questioni cardine inerenti il suo lavoro e i suoi progetti in itinere. A questa voce si affianca quella della gallerista Maria Gabriella Damiani e della curatrice della personale Ilaria Caravaglio.

Ezia, i tuoi lavori sono spesso in connessione con i luoghi. In che modo crei questa relazione?

I miei progetti sono prevalentemente installativi e, pertanto, devono necessariamente entrare in relazione con lo spazio che li accoglie, la sua identità e funzione, gli elementi architettonici, storia e territorio. Il sopralluogo, indispensabile, è il momento più stimolante, quello in cui avviene una prima relazione intima con l’ambiente in cui dovrà abitare l’opera o le opere, integrandosi e completandosi nelle architetture. Quando lo spazio è molto articolato nei vari elementi e addirittura difficile, disarmonico, diventa tutto molto stimolante; una vera e propria sfida adoperarsi al massimo per riuscire a mettere tutto in comunione perfetta raggiungendo equilibri e armonie. È capitato alle volte che proprio lo spazio, l’ambientazione, mi ha suggerito l’idea di progetto; e quando sembra che le mie opere siano sempre state lì, come presenze-essenze perfettamente integrate, sento di aver raggiunto il mio scopo. La relazione che riesco a costruire è quindi il risultato di una serie di osservazioni, analisi, riflessioni, considerazioni e prove e controprove.

La costruzione del manufatto artistico presuppone una conoscenza specifica dei materiali. Come scegli i tuoi progetti e quali materiali prediligi?

Questa conoscenza è il frutto di una mia attitudine innata alla sperimentazione. Nella mia ricerca per le sculture e installazioni adopero prevalentemente terracotta e cera che spesso integro con stoffe, carte, gessi, resine, misture plastiche, insieme a strutture portanti di legno o ferro, quando le grandi dimensioni me lo impongono. Disegno prevalentemente con i pastelli e colori ad olio su carta o tavola di legno sui grandi formati, dove ho bisogno della velocità del segno, ma sui medi e piccoli utilizzando altri tipi di carta, posso anche adoperare pennarelli, biro e tinture create da me. Amo sperimentare e tendo a modificare i materiali consueti, inventando nuove combinazioni e nuove tecniche. Custodisco una serie di appunti di ricette, misture e pasticci vari scritti negli anni: credo di potermi definire un “alchimista intuitiva”: niente matematiche formule chimiche ma emozionanti formule viscerali. Così, a volte, in una scultura o tra le linee di un disegno si può incontrare l’intruso più disparato, corredato anche di odore.

Come combino tecniche e materiali, tendo a contaminare tra loro anche i diversi linguaggi visivi: miei progetti possono essere di scultura e video insieme, di disegno e fotografia, disegno e scultura. Nel 2018 ho pubblicato un libro di poesie e disegni mentre nel 2021 ho realizzato un video composto da una performance di disegno e poesia. Mi è capitato di scrivere, musicare e cantare canzoni!

Se è vero che tutto può sottendere un’intenzione politica, come si manifesta in-volontariamente la tua ideologia?

Credo che “fare arte” sia sempre un’azione politica, che si manifesti intenzionalmente o no. Politica in senso esteso: un’azione di impegno volto a migliorare, evolvere, modificare la società in cui viviamo o perlomeno indicarne la direzione di un eventuale trasformazione e cambiamento. C’è sempre un motivo dietro ogni azione, che è legato all’ “altro”, che si connette e relaziona con l’esterno; viviamo immersi in questo sistema e ritengo sia impossibile che il nostro lavoro non sia condizionato dalla consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni. Nel momento in cui si esplicita un’idea, un pensiero, in una qualsiasi forma estetica, e la si condivide, si sta facendo politica. Che siano idee e azioni microscopiche, o gigantesche, camminano con noi e tra noi.

La mia poetica è a volte connessa in modo involontario, spontaneo e istintivo con i valori del mondo. A volte in diversi progetti, questa connessione avviene con una maggiore volontà e cognizione di causa per incidere su tematiche più specificamente sociali; ad esempio, per il decennale del concerto di musica e politica dell’Uno Maggio Libero e Pensante di Taranto ho realizzato un’azione performativa dal titolo “Il rosa ti sta bene” (il colore rosa è il colore delle polveri velenose che ricoprono la città provenienti dalla fabbrica) proiettando una mia opera video del 2013, espressamente concepita sulle problematiche socio-ambientali di Taranto, sul muro di cinta del cimitero monumentale. In questa occasione ho fatto alta politica, con intenzionalità e piena consapevolezza. Ma lo stesso posso dire con la serie degli “strappi”, installazione esposta in questa mia ultima personale Frangibile: ogni singolo fruitore che ha osservato, si è “portato a casa” una riflessione, magari una nuova consapevolezza, una carezza o uno schiaffo emotivo che potranno portare anche ad un piccolo cambiamento. E questa non è politica?

L’ideazione della tua opera viene prima della sua materializzazione?

In genere è tutto un vortice; avviene contemporaneamente, è come se ogni idea che mi “arriva” addosso abbia già una sua faccia, una forma fisica; come mi si materializzasse nel suo linguaggio espressivo preferenziale che ha scelto per “diventare”; è come per le mie poesie, nascono da un’immagine interiore e sono già parola. Ideazione e materializzazione dell’opera sono quindi intrecciati fortemente tra loro, si appartengono; libera, mi ascolto dentro e lascio che l’idea nasca da un’intuizione iniziale legata all’urgenza emotiva che mi preme dentro, idea che poi sgorgando e affrontando margini necessari e distillazioni, inizia a diventare corpo fisico.

In quel momento avviene come una pacifica caccia al fare e capire, posso infatti “catturare” istintivamente tecniche e materiali, disegno o assemblo, modello, filmo, fotografo, accosto oggetti, trasformo, insomma “faccio”, lasciandomi andare con il linguaggio che spinge, e intanto, “catturare” emotivamente concetti e comprendere cosa vedo e sento, cosa sono in quel momento in relazione al mondo, quindi all’idea. Alle volte, può anche succedere che, come in un risveglio, mi diventa tutto chiaro solo dopo aver visto l’opera materializzata e compiuta davanti agli occhi.

Certamente se si tratta di dover lavorare su un progetto con specifici obiettivi tematici, cerco di essere più disciplinata, l’idea me la devo andare a cercare affinché mi “arrivi”; così, in un primo momento naturalmente approfondisco il contenuto cercando di snocciolare dal mio dentro cosa spinge a livello emotivo, cosa mi muove rispetto quel tema, qual è il mio interesse e trasporto, come potrebbero essere provocati quelli del pubblico, e solo dopo aver metabolizzato l’insieme, affronto l’aspetto realizzativo valutando tecnica, materiali e fattibilità; ma dal momento che per me ogni idea, “visione” interiore più profonda si palesa già con il suo linguaggio espressivo preferenziale, ed ogni linguaggio ha la sua tecnica, questo passaggio mi risulta sempre e comunque fluido e immediato.

Maria Gabriella, come sta reagendo il pubblico dell’arte in questo periodo di ripresa?

In questo momento c’è molta attenzione al mondo dell’arte e soprattutto c’è tanta voglia di farsi trasportare dalla bellezza. Veniamo da un periodo orribile e l’arte, la bellezza, con la loro incredibile forza emozionale, sono un ottimo veicolo su cui salire per sentirsi bene, per farsi curare… E’ sempre di più la gente che presta attenzione ai lavori degli artisti e anche i giovani sono incuriositi, questo mi fa ben sperare. I periodi bui talvolta sono propedeutici a bellissime rinascite. Spero non sia solo un momento ma che questo trend di apertura continui e cresca sempre più.

Nel tuo percorso etico ed estetico di gallerista tendi a valorizzare le idee più innovative?

Sono una passionale però credo che l’etica sia un nuovo ma vecchio modo di vivere da salvare. L’etica ormai non esiste più nel nostro quotidiano. E’ troppo difficile, energeticamente dispendioso vivere con etica. Tutto spinge affinchè venga dimenticata. Ma senza etica non può esistere nemmeno la dimensione umana. Vivere con etica è quello su cui giornalmente lavoro, sia nel privato sia in galleria. E questo vale anche per le mie scelte artistiche. Un bel lavoro denso di contenuti, di ricerca, interessante, stimolante, che ti scateni un sacco di emozioni lo preferisco ad un bel lavoro solo estetico. Sono però convinta che la forza dell’arte sia nella bellezza: per cui quello che ricerco è sempre un lavoro bello, armonioso accompagnato dalla forza dei contenuti.

Ilaria, oggi si tende spesso a spettacolarizzare gli eventi artistici…

Mi risulta difficile, se non impossibile, mantenere questa riflessione slegata dal pensiero che l’arte debba essere per tutti e non soltanto rivolta a chi possiede gli strumenti per una lettura più sottile della stessa. In quest’ottica di apertura si sono fatte largo prepotentemente le cosiddette mostre blockbuster – dai concept banalmente rassicuranti -insieme alle tanto discusse esperienze immersive che, oltre ad aprire nuovi scenari di spettacolarizzazione, generano importanti ricadute economiche. D’altronde la spettacolarizzazione è figlia di un processo iniziato tra gli anni sessanta e settanta con la rivolta socioculturale che ha prodotto un’eco mediatica e, personalmente, non lo ritengo un fenomeno allarmante sino a quando la sua funzione resterà quella di incuriosire ed attrarre quella fetta di pubblico che, diversamente, non vivrebbe con lo stesso stimolo l’invito ad entrare in una galleria d’arte, ad esempio, per la personale di un valido artista emergente.

Credo che l’aspetto determinante in questa veloce evoluzione sia particolarmente legato a noi addetti ai lavori che abbiamo il dovere di non lasciarci assorbire da certi escamotage commerciali, nonché fare in modo che l’offerta più orientata alla ricerca ed imperniata su scelte scientifiche difenda e mantenga inalterati i propri spazi.

Ad esempio, ho sempre ritenuto il curatore un ponte, una figura che, con competenza e professionalità, possa traghettare il fruitore in una lettura della proposta artistica, anche laddove il primo pensiero di un occhio non allenato potrebbe essere il famoso “lo potevo fare anch’io”. In quest’ottica continuo a credere che l’arte sia al riparo da un’eccessiva spettacolarizzazione fino a quando ci saranno professionisti del sistema dell’arte con la capacità di proporre mostre ed eventi culturali che possano aprirsi ad una contaminazione con lo spettacolo, purché intesa come arricchimento di fondamenta solide e non quale proposta alternativa che vada a discapito della qualità delle proposte artistiche.

Nelle foto, alcune opere in mostra alla Galleria Orizzonti di Ostuni