L’abbandono dei banchi spiegato dai giovani

Nella testimonianza di tre ex studenti di Altamura, le cause della dispersione scolastica che in Puglia registra numeri ben al di sopra della media nazionale

Stipendi bassi, orari stressanti, assenza di politiche di sostegno ai docenti, ingresso di logiche capitaliste nei programmi e negli obblighi dei professori. Sono queste, insieme a tante altre, le problematiche che attanagliano il mondo della scuola. Ma in realtà, ce n’è un’altra ugualmente e forse più grave e complessa, a cui non è riservata la stessa attenzione e per la quale non vengono invocate, nè tantomeno ricercate, soluzioni in grado di contrastarne gli effetti deleteri: la dispersione scolastica. Un tema su cui è fondamentale capire come la pensano proprio i giovani, che visti da questa prospettiva sono le prime vittime del sistema scolastico.

Quasi mai ci si pone nei panni, o come dicono gli inglesi, nelle scarpe, dei giovani sempre più distanti dalla scuola. La narrazione dominante li vede come una generazione persa, che “non vuole fare niente” e che, magari, spera di usufruire del tanto vituperato reddito di cittadinanza. E, dunque, proviamo a dialogare con loro per scoprire cos’è che, realmente, li allontana dalla scuola, considerando che in Puglia – per rimanere a casa nostra – la percentuale di ragazzi di età compresa fra i 15 e i 29 anni che non va più a scuola e che non lavora è al 30,6%, sopra la media nazionale del 23,1%. Un dato molto più alto anche rispetto ai paesi UE (media 13,1%) – quasi 10 punti in più rispetto a Spagna (14,1%) e Polonia (13,4%) – e più del doppio se si considerano Germania e Francia (9,2%). In più la dispersione scolastica in Puglia è pari al 17,6 %, percentuale seconda solo alla Sicilia con 21,2%.

 

Dati allarmanti messi in luce da Save the Children nell’ultimo rapporto Alla ricerca del tempo perduto – Un’analisi delle disuguaglianze nell’offerta di tempi e spazi educativi nella scuola italiana. Il documento mette in correlazione povertà materiale e povertà educativa in Italia, analizzando alcuni deficit strutturali del sistema scolastico a livello nazionale e locale in termini di spazi, servizi e tempi educativi, come mensa e tempo pieno, palestra e agibilità delle scuole. Nel rapporto s’indaga anche la qualità dell’offerta, quando c’è, in relazione alla “resilienza all’apprendimento” dei minori in svantaggio socioeconomico.

Ma oltre alle diseguaglianze territoriali e alla povertà che caratterizza il Sud Italia, fenomeni che influiscono sull’abbandono precoce degli studi, cos’è che spinge i giovani a lasciare la scuola? Bisogna capire quale meccanismo si rompe dentro i giovanissimi quando maturano la decisione di abbandonarla. Bisogna imparare ad ascoltare, a mettere da parte il freddo paternalismo e, soprattutto, bisogna interpellare le prime vittime del mal funzionamento della scuola per cercare di avere un quadro completo della questione.

Il tipo di storie che abbiamo cercato di ascoltare al meglio, quelle di Michele, Giovanni e Sara, tre giovani di Altamura, hanno la tipica dignità che il dolore chiama; quella dignità e quel riserbo che ammutolisce, che richiede un ascolto rispettoso e delicato. Per cui, cercando di rispettare al meglio quell’autentico dolore, avviamoci in un esercizio di empatia, altra grande assente nella scuola italiana.

Michele è un ragazzo di 24 anni che ha abbandonato la scuola a 16, dopo aver terminato il secondo superiore in un istituto professionale. Si sveglia alle 5 di mattina e va a correre con un giubbotto imbottito di pesi, fa sport, pratica MMA, muay thai, difesa personale e altre discipline. Balla la break dance, si allena con lo skateboard, pratica bungee jumping e dice di essere bravissimo a praticare BMX. Da poco ha iniziato a lavorare in azienda col padre, dopo aver ricucito con lui un difficile rapporto.

Gli chiedo cos’ha pensato quando ha saputo del mio interesse per lui e per la sua esperienza scolastica. Ansia ma allo stesso tempo soddisfazione, la risposta. Comincio a questo punto col chiedergli quali sono stati gli anni più significativi della sua carriera scolastica, quelli in cui ha iniziato a maturare un sentimento di sfiducia tale da lasciare gli studi a soli 16 anni. Così Michele mi parla subito del periodo in cui ha frequentato le scuole medie e di un episodio in particolare.

“Mi sentivo diverso dentro, diverso dagli altri, troppo. Mi escludevano perché ero troppo vivace o forse perché ero stato bocciato in prima media. Le mamme dei compagni di classe cercavano di evitare che i loro figli avessero a che fare con me. I professori non mi consideravano, mi facevano sedere all’ultimo banco, per loro ero solo un fastidio”, spiega Michele. “Non c’era nemmeno un docente che ti considerava?”, riprendo.

“Uno sì, il professore di musica: sapeva che ballavo la break dance e così mi ha fatto esibire sul palco dell’aula multimediale, in occasione della conclusione del Pon a cui ho partecipato”, afferma Michele. “Oltre questo episodio, ce ne sono altri in cui ti sei sentito incluso?”, rilancio. “Alle medie no. Poi ho perso mia madre quando avevo 13 anni e da lì è peggiorato tutto. Quando sono tornato a scuola ho notato molta indifferenza. Il preside mi ha raggiunto in classe, mi ha stretto la mano dicendomi ‘mi raccomando’ e poi è andato subito via. Il professore in classe non ha aggiunto nulla. Mi sono sentito davvero troppo piccolo. E ne ho sofferto molto”, il suo commento. “E alle superiori?”, chiedo. E Michele mi parla di una situazione drammatica, di episodi violenza da parte dei professori nei confronti degli alunni, di intere classi perennemente in giro nell’istituto e fuori.

Gli chiedo se, anche qui, abbia trovato almeno un insegnante che lo considerasse, che non lo mandasse fuori dall’aula, che non lo escludesse. E, come nella maggior parte dei casi, c’è. Mi racconta che il professore che ricorda con affetto, quando trovava fuori dalla classe lui e gli altri ragazzi li richiamava in classe e li stimolava in varie attività. Mi parla dell’interesse che suscitava in lui la sua materia, impiantistica. Lo definisce “l’amico degli ultimi”, perché attento ai ragazzi che mostravano disagio, senza guardarli “con occhi diversi”.

Ma evidentemente questo non è bastato a Michele: abbandona la scuola, compie alcuni furti e sconta in carcere i reati commessi da minorenne dopo aver compiuto diciott’anni. La sua energia esplosiva, che non trovava canali giusti attraverso cui fluire a scuola, esplodeva altrove. E altrove è rimasta. Gli chiedo, però, che cosa vorrebbe dire a tutti i professori che ogni mattina si recano a scuola con la responsabilità conscia o inconscia di avere un grande potere sui ragazzi, di poterne in qualche modo determinarne il futuro.

Vorrebbe che iniziassero a guardare davvero chi hanno di fronte, che cominciassero a rivolgere sincera attenzione a tutti e non solo a pochi. Che i problemi che attanagliano loro e il loro lavoro non giustificassero né la loro indifferenza né reazioni più gravi. “Secondo te, la scuola può modificare il nostro futuro? Può essere il nido da abbandonare al momento giusto, capace di offrire gli strumenti per affrontare nel modo migliore la vita? Nonostante le difficoltà famigliari?”, gli chiedo.

Michele mi risponde di sì, non banalmente, visto che nella sua vita ha trovato stimoli e “accoglienza” altrove. Infine, gli chiedo che cosa consiglierebbe ad un ragazzo di 16 anni che si ritrova a dover affrontare lo stesso senso di abbandono, la sua stessa sofferenza a scuola. Dove gli consiglierebbe di cercare l’entusiasmo, la voglia; dove sviluppare la curiosità. “Gli direi di fare quello che stai facendo tu. Avere interesse e voglia di denunciare”, risponde. Mi dice che sono per lui la prima persona che vede interessata alle dinamiche scolastiche da un punto di vista alternativo. La prima a non farlo sentire “ignorante” o colpevole del suo “destino”. Secondo lui i professori devono imparare a non “fare le differenze”, a non mettere i ragazzi in contrapposizione per classe sociale o capacità di apprendimento. “Se i professori continuano a fare le differenze, ci saranno sempre i bulli. Se non ci fossero differenze forse non ci sarebbe violenza a scuola o forse ce ne sarebbe meno”, afferma risoluto.

La storia di Giovanni Baldassarra (sì, a differenza di Michele, vuole che il suo nome sia pubblicato) non è troppo diversa dalla precedente e da quella di Sara.

Anche lui ha lasciato la scuola senza conseguire il diploma. Ricorda “come se fosse ieri” l’unico apprezzamento che ha ricevuto nei suoi anni seduto ai banchi: “il ragazzo impara in fretta, ha un’ottima capacità di apprendimento”, sentì dire a sua madre da una professoressa. Poi, dice, che la sua “iperattività” era diventata un problema. Troppo vivace, troppo esuberante, non era ben visto né dai professori né dai compagni di classe. In tutti gli anni di scuola ricorda un solo professore, della scuola superiore, che lo abbia considerato e che ancora oggi saluta con piacere. L’unico che, come succedeva a Michele, si preoccupava di renderlo partecipe nel corso della lezione. Ma tiene a precisare che era l’intera classe ad essere abbandonata a sé stessa e che l’unico momento di lezione si esauriva in quello di quest’ultimo professore.

Mi racconta, anche lui, episodi di maltrattamenti da parte dei docenti nei confronti dei cosiddetti “bulli”. Di come al primo anno delle superiori 30 ragazzi su 32 siano stati bocciati, come il giornale cittadino aveva riportato. Ma soprattutto mi parla, anche lui, del suo sentirsi abbandonato, discriminato, allontanato. Delle “differenze” di cui ci ha parlato anche Michele, di come frasi del tipo “fai quello che vuoi, io prendo comunque lo stipendio” fossero all’odine del giorno. Di come andare a scuola era diventato inutile per lui, nel torpore delle mattinate passate in giro per l’istituto. Così ha iniziato a lavorare, prima in macelleria, poi in un salone di parrucchiere, poi per aziende che lavorano il marmo…

Mi dice che avrebbe voluto avere gli stessi professori delle sue due sorelle, diligenti e studiose, perché ha sempre attribuito il loro studio e il loro zelo ai docenti che ogni mattina le attenzionavano con cura e affetto. Anche lui vorrebbe che tutto cambiasse, che i professori la smettessero di dire che “i ragazzi non hanno voglia di studiare”.

Oggi Giovanni ha 27 anni ma mi confessa che spesso si chiede come sarebbe stata la sua vita se avesse continuato gli studi. E se lo chiede perché nel suo lavoro si rende conto di imparare in fretta; che il suo cervello ha fame di imparare e che il marmo che lavora, forse, non soddisfa a pieno le capacità che sente di avere. La cosa che più si augura, dice, è che il figlio che vorrebbe trovi dei professori che sappiano riconoscerne il potenziale e che riesca, conscio di non poterlo influenzare sempre e non nel modo in cui può un professore, a non perdere mai l’entusiasmo.

Lo stesso entusiasmo che Sara non ha mai avuto, o meglio, che ha visto esaurirsi molto presto. Mamma a 16 anni, ha lasciato la scuola dopo pochi mesi dall’inizio del terzo superiore. “Hai lasciato la scuola a causa della gravidanza?”, le chiedo. “No, aspettavo una scusa, un evento forte, una scossa, qualcosa. Ho conosciuto il mio attuale marito e questo mi è bastato per abbandonare i libri, ancora prima della gravidanza”. “A scuola non c’era niente che potesse competere con questa relazione?”, le chiedo. “La maggior parte del tempo ero sola. Sono sempre stata ansiosa, riservata, avevo paura del giudizio. Dopo che una professoressa mi rimproverò davanti a tutti per averle raccontato di essere stata molestata da un ragazzo della mia classe mi sono isolata. Secondo la docente avrei dovuto tacere ed evitare di mettere in imbarazzo il ragazzo”. Come milioni di donne ha subito la cosiddetta vittimizzazione secondaria per aver denunciato, in qualche modo.

Queste tre testimonianze mostrano l’altra faccia della medaglia: la mancanza dilagante della vera vocazione all’insegnamento. Troppi desideri, sogni, talenti inascoltati. “Di chi hai bisogno quando vieni distrutto?” cantano i Duran Duran. Sara, Giovanni e Michele erano alla ricerca di qualcuno che li spingesse ad esprimere la loro energia, le loro inevitabili potenzialità, ma hanno spesso creduto di non aver niente di particolare da sviluppare, da creare.

In realtà, bisognerebbe chiedersi cosa è e cosa vuole essere la scuola. Un luogo di crescita o ciò di cui hanno enormemente bisogno i giovani per non cadere distrutti? Un luogo fatto di retoriche, luoghi comuni, discriminazioni, classismo o nido di esperienze e pilastro salvifico? Se è vero che i nostri professori devono affrontare luoghi di lavoro spesso disfunzionali, leggi deleterie, genitori iperprotettivi e a volte violenti, è anche vero che i giovani spesso devono affrontare l’indifferenza, la mancanza di prospettiva e di futuro, la solitudine, la discriminazione. La scuola, moltissimi docenti, la politica avranno per sempre anche questa responsabilità, quella di aver contribuito ad allontanare migliaia di giovani da sé stessi, dalla propria strada.