Quanta sofferenza nel leggere i giornali di questi giorni. Pagine e pagine dedicate alla sanità in Puglia, alla sua condizione poco efficiente, ai suoi ritardi e, per concludere, questa volta, a un invito a legiferare per stabilire “l’aiuto a morire in pace”. Incapaci di parlare e di operare compiutamente e fattivamente in tema di prevenzione e di cura, ecco la soluzione: “togliere il disturbo”, eliminare chi è a “fine vita”, aiutarlo non a cercare sostegno alla propria sofferenza ma a “farlo fuori”. Chi dice che quelle sono solo, chiare domande di morte e non, invece, richieste di aiuto a non soffrire e a non morire, magari solo come un cane?
Una legge è per tutti e vorrei capire quando e chi ha fatto questa richiesta in Puglia, tanto da spingere non il legislatore nazionale ma una Regione – la Puglia – a cercare di darsi norme così definitive e inaccettabili? La dolorosa conoscenza dell’incubo delle liste d’attesa in Puglia è forse il presupposto, la premessa a “decidere per la scorciatoia”?
Non lo si ammetterà mai. Invece di sostenere chi è impegnato sul fronte delle soluzioni, invece di lavorare per risolvere i problemi della nostra sanità regionale, ci si dichiara come incapaci, impotenti, pronti a praticare scorciatoie, ad individuare delle scappatoie. Ma questa richiesta appare più come dettata da sensazionalismo elettorale che dalla volontà di ricercare un’effettiva, condivisa soluzione del problema. E con la salute non si scherza; non è consentito a nessuno “appuntare bandierine” sulla pelle dei cittadini, specie in campagna elettorale.
Non più tardi di una ventina di giorni fa, abbiamo letto la gravissima denuncia del sindacato pugliese dei pensionati Cgil, Cisl e Uil nei confronti della Regione Puglia: la richiesta di “un intervento straordinario per assicurare quanto già scritto nella stessa legge regionale n.13 del 2019, su come “stoppare temporaneamente le prestazioni intramoenia”. Sono inaccettabili, dolorose, le liste d’attesa così fatte: 99 giorni per una mammografia, 72 giorni per una TAC all’addome, 69 giorni per una colonscopia, non 3 giorni per una Tac al cervello, ma 21 giorni all’Asl di Foggia, 40 giorni a Bari, 34 a Lecce, 41 nella Bat. E potremmo continuare così.
A pagamento, invece – nello stesso ambulatorio ospedaliero, dallo stesso medico – tutto si risolve nel giro di una settimana. Che dire? O la borsa o la vita! Tutt’altro che quanto si afferma nella Carta per i Diritti delle persone Anziane e i doveri della Comunità, elaborata dalla Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria per la popolazione anziana istituita presso il ministero della Salute, guidata da mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, presentata al presidente del consiglio, Mario Draghi lo scorso mese di settembre. Intanto, il 13 dicembre 2021 dalla Camera, l’iter della legge sul “fine vita” è stato già avviato, per tenere conto di quanto deliberato dai giudici costituzionali.
Facciamo nostra la domanda che pone il prof. Filippo Maria Boscia, presidente nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI): “È così che si custodisce la vita dei fragili che chiedono di morire tra libertà e pietà?”.
“Gran parte dei medici fa presente che c’è un’incompatibilità assoluta tra l’agire medico e l’uccidere. Ai medici non può essere assegnato il compito di causare, accelerare o provocare la morte. Chi esercita la difficile arte medica – scrive Boscia – non può scegliere di far morire e nemmeno di far vivere ad ogni costo contro ogni ragionevole logica. I medici sottolineano l’importanza di garantire l’accesso a cure palliative universalistiche e solidaristiche in modo omogeneo e non diseguale; cure irrinunciabili per garantire ai malati ogni attenzione e percorsi sostanziati da rapporti umani, affettivi e intensi e da professionalità eccellenti. La medicina, nella proporzionalità terapeutica, è sempre per la vita e a favore della vita, guarda la vita e comunica la vita, sempre senza alcun disimpegno o abbandono. I medici con delicatezza e fermezza continueranno a curare le fragilità e le ferite, anche le più gravi con la sollecitudine del prendersi cura ancor più e in special modo quando non si può guarire. La relazione di cura che è parte inscindibile di ogni percorso umano aspro e doloroso sta proprio nel saper vigilare, nel saper curare. Sta nella medicina dei cinque sensi: udire, vedere, toccare, nutrire e sostenere il malato”.
“Non c’è nulla di dignitoso nel vedere un proprio caro soffocare!”. Così una zia di Archie. Chiedetelo ai familiari del piccolo Archie Battersbee, 12 anni, ricoverato al Royal London Hospital per gravissimi danni celebrali. È morto due ore e 15 minuti dopo lo spegnimento del ventilatore meccanico disposto pochi giorni fa dai giudici per sentenza dell’Alta Corte di Londra, contro la volontà dei genitori. I magistrati non hanno dato il “giusto peso” nè alla volontà nè al credo religioso dei genitori, che hanno cercato di ottenere, dai tribunali britannici di ogni grado, una sentenza che imponesse ai medici di mantenere in vita il figlio. I loro ricorsi sono stati sempre respinti e, insieme ad essi, anche la richiesta che Archie venisse trasferito in un hospice per avere un po’ più di tempo e morire lontano dal caos dell’ospedale. La mamma di Archie, Hollie Dance, ha definito la decisione “devastante e dolorosa”. Non c’è “modernità” o “laicità” che tenga, a cui sacrificare il “favor vitae”.
Bisogna uscire da quelle situazioni ambientali, familiari, ospedaliere che, purtroppo, danno ancora ragione al nostro poeta contadino lucano, Rocco Scotellaro, quando afferma: “Sentirsi soli è come stare faccia a faccia con la morte”.
Nell’immagine in alto, l’opera “Il tramonto” di Franco Donati. Anche le altre immagini riproducono opere dell’artista