Ne La Scienza nuova, opera del ‘700 del filosofo Giambattista Vico, viene argomentato uno dei pensieri destinati ad influenzare profondamente, di lì in avanti, il modo di percepire la realtà del mondo: i corsi e i ricorsi storici.
Queste sono, per Vico, le coordinate della storia ideale eterna, che si svolge di tempo in tempo, sempre uguale a se stessa eppure diversa. Una lettura del mondo utile a spiegare anche quanto accade proprio in questi primi giorni del secondo decennio del duemila, esposti al rischio sempre più crescente a cui l’umanità è esposta a causa della pandemia. Di lotte tra l’esistenza umana e vari tipi di epidemie abbiamo pieni i libri di storia e la letteratura: dalla peste alla spagnola, dall’influenza suina alla più recente malattia di ebola e via dicendo. E ogni volta, queste forme di virulento contagio sono riuscite a far franare le difese e le certezze di cui abitualmente ci circondiamo. É quanto sta accadendo in queste ore, tanto più che l’Europa, e in particolare l’Italia, rappresentano il centro dell’epidemia e il cuore nevralgico della lotta per debellarla.
È tangibile il senso di smarrimento e di incertezza che, a poco a poco, prende possesso delle nostre menti, non solo come individui ma anche come comunità sociale.
E così, mentre le nostre giornate sono diventate forzatamente ripetitive all’interno delle mura domestiche, a causa delle restrizioni imposte dal governo, la mancanza di sicurezza che ci circonda alimenta sospetti, indiscrezioni, supposizioni. È quanto è successo a Palo del Colle, come in tanti altri comuni in situazioni analoghe, dove già da prima che venisse ufficializzato il primo contagio, erano circolate, attraverso l’uso dei social – che mai come ora, con i loro pro e contro, stanno condizionando pesantemente le nostre vite – messaggi, audio e addirittura immagini su chi fosse la persona interessata.
Ed è qui che si coglie in maniera evidente quella sottile linea di demarcazione tra la necessità di essere cauti, ben informati e rispettosi di quanto disposto dalle autorità, e il rischio di sfociare in comportamenti e giudizi dettati da cinismo e mancanza di rispetto verso chi è colpito dal contagio. Proviamo, inoltre, a metterci nei panni di parenti e familiari, letteralmente bombardati da messaggi e telefonate allarmate; proviamo a immedesimarci nell’impotenza che avranno provato dinanzi al dilagare, di cellulare in cellulare, di commenti o immagini del proprio congiunto, diffusi dall’insana frustrazione di un paese, di una comunità a caccia, in ogni modo e con ogni mezzo, dell’identità da svelare.
Un fenomeno che in questi giorni si registra in numerosissime città e, di certo, non nuovo, tant’è che si torna a parlare di “caccia all’untore”, definizione coniata da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, quando nel descrivere il panico suscitato dalla peste nel 1630, scriveva: “Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire”.
L’invito, dunque, è di non cedere a questa nuova forma di razzismo: il passo dai sentimenti di solidarietà e civiltà alla deriva di accuse fondate sul sospetto e la maldicenza può essere davvero molto breve. Ogni ricorso comprende in sé il corso precedente e lo supera: seguendo il modello indicato da Vico, sforziamoci di creare una strada nuova, diversa e più solidale.
Nell’immagine in alto, “La caccia all’untore” di Nino Lupica (1984)