La rinascita del nucleare? Pura fantascienza

Il decreto legge appena approvato prevede che, contrariamente al resto del mondo, l'investimento per le nuove centrali, stimato in cento milardi, sia interamente a carico di privati senza sussidi dello stato

Diciamolo subito. Il dibattito sul nucleare in Italia è “un’arma di distrazione di massa”: le probabilità di vedere nei prossimi anni un reattore nucleare funzionante sono prossime allo zero. Potrebbe sembrare un controsenso all’indomani dell’approvazione, da parte del consiglio dei ministri, della legge delega “in materia di energia nucleare sostenibile”. Ma chiunque analizzi bene la questione è ben capace di distinguere la propaganda dalla realtà.

Giorgia Meloni ha commentato l’approvazione del ddl come un “importante provvedimento per garantire energia sicura, pulita, a basso costo, capace di assicurare sicurezza energetica e indipendenza strategica all’Italia”. E il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, in conferenza stampa si è spinto oltre, sostenendo che i reattori di nuova generazione saranno operativi “verso il 2030”. Siamo, ovviamente, nel campo della fantascienza pura.

La ragione per cui il nucleare in Italia non si farà mai è contenuta, paradossalmente, nello stesso testo della legge che oggi viene salutata come il primo passo per la sua rinascita. Il governo, infatti, ha messo nero su bianco che il nucleare dovranno pagarlo i privati, nonostante non esista alcun paese al mondo in cui il nucleare non sia sussidiato dallo stato (non a caso nel 2022 il colosso nucleare francese Edf è stato nazionalizzato per evitare la bancarotta). La legge prescrive addirittura che le aziende energetiche si facciano carico della gestione dei rifiuti, inclusi il deposito geologico, la cui localizzazione resta ancora oggi un rebus.

Si parlerebbe, secondo le stime del professor Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche dal 2007, di oltre cento miliardi di investimenti e i piccoli reattori modulari SMR e AMR, di cui parla il governo, sono progetti che esistono solo sulla carta, non essendoci un’azienda al mondo che li venda e non esistendo un quadro regolatorio di riferimento. Insomma, i reattori che vogliono Meloni e Pichetto Fratin semplicemente non esistono, senza contare che eventuali impianti nucleari dovranno essere accettati proprio da quei territori che oggi si oppongono alla costruzione del deposito geologico per conservare i rifiuti delle vecchie centrali.

Il nucleare, visti i tempi che occorrono per ricominciare da zero in Italia, non è ovviamente una soluzione contro il caro bollette né uno strumento utile per raggiungere nei tempi stabiliti i target di abbattimento delle emissioni, previsti dall’Unione Europea. Inoltre, proprio di recente uno studio prodotto da Federico Maria Butera, docente emerito di Fisica tecnica ambientale al Politecnico di Milano, in occasione di un’audizione alla camera dei deputati, ha messo anche in dubbio la reale efficacia degli impianti nucleari, nel sistema energetico italiano decarbonizzato, di svolgere la funzione primaria di compensare la variabilità delle fonti solare ed eolica. Che è una delle ragioni che spesso i promotori del nucleare citano per avvalorare la necessità di un ritorno all’atomo.

Gli impianti, infatti, dovrebbero funzionare per la maggior parte del tempo a potenza variabile e non a piena potenza. Ma nei reattori nucleari, proprio a causa dell’alto costo capitale e relativamente piccolo costo del combustibile, il costo del kWh elettrico prodotto è fortemente dipendente dal capacity factor, che è il rapporto fra numero di kWh effettivamente prodotti all’anno rispetto a quelli producibili funzionando a piena potenza. Più è basso il capacity factor più è alto il costo (Levelized Cost Of Electricity, LCOE) del kWh prodotto.

Per questo si cerca di tenere il capacity factor il più alto possibile. Se si assegna il ruolo di compensare la variabilità delle fonti eolica e solare, il capacity factor degli impianti nucleari sarebbe più basso di quello assegnato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, che stima per il nucleare in Europa un costo di 120 $ / MWh nel 2050, con un capacity factor del 75%. In Francia, dove gli impianti nucleari modulano la loro potenza, nel 2006 – l’anno con la più alta produzione di energia da nucleare – il capacity factor medio è stato pari al 78,3%. Nel 2023, invece, a causa del cresciuto peso delle rinnovabili non programmabili e di alcune centrali malfunzionanti o in manutenzione, il capacity factor medio è sceso al 60%.

Insomma, dai dati forniti dalle più autorevoli fonti disponibili in letteratura, l’opzione nucleare non sembra poter assicurare un costo del kWh inferiore a quello prodotto con fonti rinnovabili pure se unite all’accumulo e, quindi, non può contribuire alla riduzione del costo dell’energia elettrica per gli utenti finali.

Nel frattempo, mentre si annuncia che i reattori di “nuova generazione” saranno operativi nel 2030, Ii dibattito su dove trasferire le scorie degli impianti chiusi dopo il referendum del 1987 è ancora aperto. Da anni l’Italia attende di costruirlo e da anni si accumulano ritardi perché la politica non sa dove localizzarlo, come avevamo già spiegato in un altro articolo (clicca qui). E dopo essersi data delle regole per guidare la scelta, è tornata sui suoi passi. Davanti ai no dei 51 siti potenzialmente idonei, tra cui anche quelli pugliesi, il ministro ha tentato la carta delle auto-candidature, ma l’unico comune che si era proposto, Trino Vercellese, ha fatto marcia indietro in due mesi a causa delle pressioni politiche. Provenienti da dove? Proprio da Fratelli d’Italia in Piemonte. Non ha sortito effetti neanche la ricerca di aree disponibili nel patrimonio del ministero della difesa. L’ultima uscita, settembre 2024, è quella di distribuire i depositi sul territorio, in almeno tre strutture. Dopodiché sul tema, complice l’avvio della Valutazione Ambientale Strategica (Vas, una procedura burocratica propedeutica ai lavori) è calato il silenzio.

A tal proposito, proprio nel disegno di legge sul nucleare licenziato dal governo compare un riferimento ai rifiuti. Nella delega, come recita il testo, rientra infatti anche “la disciplina della sperimentazione, della localizzazione, della costruzione e dell’esercizio di impianti di stoccaggio temporaneo dei rifiuti radioattivi e del combustibile esaurito, nonché di impianti di smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi e del combustibile esaurito, qualora non riprocessabile, riciclabile o riutilizzabile, e dei relativi sistemi di sicurezza e radioprotezione”. E se a pensar male spesso ci si azzecca, diremmo che la prospettiva di nuove regole potrebbe congelare la situazione fino a nuovo ordine.

L’apertura, d’altronde, è stata continuamente posticipata: prima nel 2025, poi 2030, diventato 2032 e, adesso, secondo le dichiarazioni ufficiali dello stesso Pichetto Fratin, si guarda al 2039. Ecco, siamo abbastanza sicuri che il nucleare in Italia non tornerà mai, ma il deposito, quello sì, andrebbe effettivamente costruito. Prima o poi.

Nelle foto, tratte da sito di Sogin (clicca qui), i lavori di bonifica della centrale nucleare di Trino Vercellese.