Squadra che vince non si cambia. Dopo il successo de La stranezza (2022), il regista catanese Roberto Andò ritrova gli attori protagonisti Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone, i cosceneggiatori Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, la sinergia con BiBi Film e Tramp, di Rai Cinema e Medusa, per L’abbaglio, il film in questi giorni nelle sale, spesso alla presenza degli stessi protagonisti (com’è successo al Galleria di Bari) per rispondere alle tante curiosità del pubblico e concedersi i soliti bagni di folla e selfie.
Ispirandosi a una vicenda reale, ma opportunamente rielaborata dalla fantasia, il regista segue il viaggio delle camicie rosse da Quarto a Marsala, lo scontro con l’esercito borbonico più numeroso e meglio equipaggiato e il piano diversivo messo in atto da Garibaldi grazie a uno dei suoi uomini migliori, il colonnello amletico e visionario Vincenzo Giordano Orsini (Toni Servillo), che si ritrova per molti e accidentati casi ad arruolare due “povericristi siciliani”, il contadino Tricò (Ficarra) e il baro Spitale (Picone).

Proprio i personaggi di Ficarra e Picone sono due indefettibili maschere dell’italiano che non è mai fino in fondo dalla parte del bene comune e però, in certi momenti emergenziali, sa essere straordinariamente generoso e salvifico. Personalità che ovviamente fanno da contrappeso a quella del colonnello Orsini: un aristocratico democratico, un anti-Gattopardo che sogna la rivoluzione. Ma anche un uomo del dubbio che si pone molti interrogativi e si ritrova davanti due disillusi dall’esperienza e dalla vita. Lo spazio che Andò indaga con il suo film è proprio quello in cui tutto può succedere e in cui s’incrociano illusione e disillusione, cinismo e speranza.
Il regista siciliano prende ispirazione da un episodio poco raccontato a cui s’interessò anche Leonardo Sciascia dedicandogli un racconto postumo, Il silenzio, pubblicato solo di recente. Una vicenda esemplare, ambientata in una Sicilia che ancora una volta si rivela lo scenario di un’identità inquieta e sfuggente, in bilico tra il desiderio di giustizia e la mistificazione. I siciliani accolsero Garibaldi come un Cristo Salvatore, credettero in nuovi ideali, come la redistribuzione del latifondo, che poi non si realizzarono. Ed è proprio quella disillusione che ha una continuità nella nostra contemporaneità, di promesse mai mantenute, di una sempre crescente disaffezione rispetto a chi dovrebbe fare l’interesse comune.

Eppure, allo stesso tempo, L’Abbaglio fa anche un discorso più complesso e contrario al precedente, rappresentando un antidoto a quel tentativo – più volte descritto dallo storico Aurelio Musi – messo in atto da soggetti politici di provenienza diversa: “assumere la rappresentanza di un vittimismo meridionale che sposta e proietta gli effetti e le ragioni del malessere, derivante da una condizione generale di crisi, in un diffuso sentimento antiunitario”.
Questi soggetti “giocano sporco” per allargare il consenso alla loro politica. Sovrappongono la memoria alla storia: o, meglio, l’invenzione della tradizione, il mito dell’età dell’oro borbonica con i suoi presunti primati, la “conquista del Sud” da parte dei “coloni piemontesi”, il fantasioso numero delle 100mila vittime meridionali immolate all’obiettivo dell’unificazione, ai risultati della più accreditata ricerca scientifica. Così neoborbonismo e populismo vanno a braccetto nell’uso pubblico dell’antistoria: e stanno diventando ingredienti non opposti ma complementari di nuove modalità di ricerca del consenso. Istanze che fanno leva sull’autodifesa dell’identità meridionale per differenziarsi nel mondo globalizzato e spingono a rifugiarsi in una presunta e mitica storia, quella borbonica, raccontata per invenzioni.

In Puglia, ad esempio, lo sviluppo del neoborbonismo è andato di pari passo con l’ascesa postideologica del Movimento 5 Stelle, che nel 2017 ha presentato una mozione – approvata quasi all’unanimità dal consiglio regionale – che impegnava il presidente e la giunta di centrosinistra «a indicare il 13 febbraio come giornata ufficiale in cui si possano commemorare i meridionali che perirono in occasione dell’unità, nonché i relativi paesi rasi al suolo».
La scelta ricadeva sulla data iconica della memoria legittimista borbonica: la resa di Gaeta del 13 febbraio 1861, su cui cominciò a plasmarsi il mito della nazione duosiciliana in contrapposizione mimetica a quello della nascente nazione italiana. Inoltre, il testo votato evocava stragi e numeri di morti (significativamente designati come «vittime») senza tenere in conto i risultati della recente ricerca storica – non solo accademica – metodologicamente più avvertita.

Andò quindi tiene insieme le due cose. Da un lato quell’abbaglio – quell’errore – di credere che le cose potessero davvero cambiare, quel sentimento di rassegnazione non solo nei confronti dei potenti, ma anche di quei tanti “straitaliani” sempre pronti a ingannare, a rimestare nel torbido, a passare dalla parte dei vittoriosi rinnegando il loro passato. Dall’altro la presa di consapevolezza che questo sentimento di disillusione – se pur legittimo, motivato, giustificabile – non deve farci chiudere gli occhi davanti ai pericoli del presente, davanti a quei demagoghi che vorrebbero riscrivere la storia, a destra come a sinistra, facendo leva proprio su quella frustrazione dilagante di chi è abituato ad aspettarsi che le cose non cambieranno mai.

Il film di Andò concorrerà adesso ai David di Donatello grazie a una “uscita fantasma” consumata entro il 31 dicembre 2024, buona per soddisfare il Regolamento dei David 2025, nonostante il titolo sia poi stato regolarmente distribuito in sala solo a gennaio.
Uno stratagemma che ha permesso a L’Abbaglio l’iscrizione ai David anzitempo rispetto a quanto gli consentirebbe la cosiddetta “uscita ufficiale” validata dalla locandina. Rai Cinema e Medusa hanno unito le forze – anche questa, se vogliamo, è più prosaicamente “unità nazionale” – credendo nel progetto di Andò, che presto vedrà anche un terzo film a completamento di questa trilogia sicilianissima e allo stesso tempo italianissima. D’altronde Sicilia e Italia sono, come le chiamerebbe Pietrangelo Buttafuoco, entrambe “buttanissime”.
Tutte le foto del film sono di Lia Pasqualino