Vi è una pagina di Povera gente, il primo romanzo di Dostoevskij, in cui la ragazza, con cui il protagonista scambia una serie di lettere, si lamenta di non essere mai andata a teatro e prega il suo amico di penna di portarla un giorno, di farla sedere anche in un misero palchetto, in alto, in un posto in fondo. A lei non importa di vedere pochissimo o, addirittura, di non vedere affatto. Può anche solo ascoltare le voci, le musiche, finanche le reazioni del pubblico intorno a lei, in quel luogo magico, in cui realtà e finzione si mescolano e inevitabilmente si confondono. Le basta osservare il modo in cui si vestono gli habitué, ammirare in platea le matrone impellicciate e perdersi, così, in tante fantasticherie. In modo che, tornando a casa, le pesi un po’ meno la sua desolante povertà. E, allora, Devuškin, il protagonista, giura che non solo la porterà in teatro ma che, a costo di indebitarsi, anche lei si siederà in platea.
Il teatro russo – come la sua letteratura – durante la seconda metà dell’Ottocento, conosceva e sperimentava una crescita senza pari, e raccontava così bene il presente da divenire metafora di quell’epoca di passaggio non solo per la Russia ma per l’Europa intera. E anche se sono passati molti anni dalla nascita di un’arte tanto antica, il teatro non ha perso la sua vitalità, il suo imprescindibile legame con il presente.
Finanche quando volge lo sguardo al passato, il teatro – come l’arte tout court – ci fa sempre riflettere sulla nostra epoca, su di noi, su quello che ci succede e che facciamo. E ieri sera, nel moderno teatro Kismet di Bari, il pubblico ha avuto l’occasione di volgere il suo sguardo all’oggi, grazie alla drammaturgia di Marinella Anaclerio, straordinaria artista barese, che in tutti i suoi lavori sperimenta e osa continuamente, portando una ventata di aria fresca in un teatro, come quello pugliese, ancora troppo legato alla tradizione. Lo spettacolo Quando le stelle caddero nel fiume, con cui si apre la stagione teatrale del Kismet, è la prova del suo grande talento, nonché della necessità che il teatro sia il pugno nello stomaco dello spettatore, la pulce nel suo orecchio, il pungolo che lo fa interrogare sul suo ruolo nella società di oggi.
Flavio Albanese, Augusto Masiello ed Edoardo Epifani (sostituito in determinate scene da Massimiliano Di Corato) hanno interpretato tre soldati fascisti, durante il massacro di Debre Libanòs, il più grande eccidio di cristiani copti avvenuto in Africa, tra il 21 e il 29 maggio 1937. La pièce, diretta da Alessandro Maggi, adattamento dell’omonimo romanzo di Paolo Comentale, è una riflessione sulla brutalità della guerra, dietro cui si cela il desiderio dei potenti di sopraffare i più deboli per sentirsi più forti. La scenografia, con i suoi colori tetri, trasmette la desolazione di questi soldati, che hanno il dovere di confrontarsi con quello che hanno fatto. Davvero era inevitabile uccidere? Era necessario? Non lo si poteva evitare in alcun modo?
Hanno eseguito solo gli ordini. “Certo, ma l’assassino è colui che preme il grilletto o chi ha ordinato la fucilazione?” è la domanda che si fa uno dei protagonisti e la risposta contribuisce ad agitare le loro coscienze. Ogni tentativo di trovare consolazione è vano, un’inutile perdita di tempo e di fiato. E mentre i soldati, queste tre figure in abiti scuri, sembrano essere imprigionati all’interno di loro stessi, all’interno del loro senso di colpa, dell’impotenza che grava su di loro, la domanda che continuano a rivolgere a se stessi è: “come potremo tornare a vivere, dopo quello che abbiamo fatto?“. Una riflessione che non può non riguardare tutti quanti, finanche il pubblico: possibile che non vi sia un modo per fermare l’eccidio che avviene a pochi chilometri da noi? Possibile che siamo tanto piccoli? Tanto inutili?
Quei tre soldati, così emaciati, vengono rappresentati nella loro umanità, ma non riescono a togliersi mai del tutto la maschera di carnefici, la sensazione di essere colpevoli, di non aver fatto il possibile per evitare il male che hanno compiuto. La consapevolezza insopportabile di aver causato morte e dolore a persone innocenti, con nessuna colpa se non quella di essere dalla parte sfortunata della barricata. Di non essere riusciti a vincere i loro stessi istinti, le loro paure. Di non essere andati contro gli ordini provenienti dall’alto. Ogni personaggio si sente come trascinato verso la rovina da un fato insensibile e crudele, che fa delle vite degli uomini quello che vuole.
Ma, in questa comune caduta, i tre soldati si prendono le proprie responsabilità. E lasciano intravedere una luce. La possibilità di un cambiamento, dopo aver coraggiosamente ammesso il proprio ruolo nella storia. Solo a questo punto, gli interpreti in scena – simili a marionette senza vita, ad inespressivi pezzi di legno – abbandonano i movimenti robotici e la voce monotona e fredda per ritrovare la propria umanità perduta. Solo con l’ammissione delle proprie colpe si può tornare umani.
Ed è con queste riflessioni, estremamente attuali, che si apre una stagione teatrale che parla di cambiamenti, di trasformazioni o, meglio, di Attraversamenti, titolo dato a questa serie di spettacoli che si concluderanno a marzo, con L’arrago, la storia di una gang di bulli, proposta dal punto di vista dei carnefici. Ad essere descritto è un mondo adulto, incapace di ascoltare e capire il dramma di un’adolescenza inascoltata. Le pièce di questa ricca stagione teatrale – organizzata dal TRIC Teatri di Bari, con il sostegno del Ministero della Cultura, della Regione Puglia e del Comune – pongono delle domande difficili allo spettatore, ponendolo di fronte ai suoi limiti e alle sue paure. Vogliono farlo interrogare sul proprio ruolo nel mondo.
Tra gli spettacoli in programma, un omaggio a Pier Paolo Pasolini, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, e il racconto della mafia con le parole di Roberto Saviano. Non mancherà una riflessione sul ruolo della donna, attraverso il personaggio della giovane Lucia Raffaella Mariani in Freevola. Confessione sull’insostenibile bisogno di ammirazione (8 marzo) e l’adattamento di Teresa Ludovico dell’Anfitrione (22 marzo) di Plauto, in cui si analizzano i temi dell’identità fittizia, del furto e della perdita di questa identità, garantita dal ruolo sociale. E non mancheranno i musical, i rifacimenti di Shakespeare, omicidi per la cui risoluzione è richiesto l’aiuto del pubblico. Tutti spettacoli che vogliono sperimentare, osare, divenire una bussola in questi tempi incerti e luce per rischiarare il nostro futuro. Ponendosi, spesso, dal punto di vista di chi causa il male, riscoprendone e risvegliandone l’umanità, attraverso la potenza del teatro.
Le foto dello spettacolo, Quando le stelle caddero nel fiume, sono di Giacinto Mongelli