Alla vigilia della solennità dell’Assunta, mons. Giuseppe Satriano ha comunicato a tutti i presbiteri, i diaconi, i laici e le comunità religiose “le scelte pastorali che coinvolgono alcune comunità ecclesiali della nostra arcidiocesi”.
Si tratta, soprattutto, di trasferimenti e avvicendamenti di diversi sacerdoti (16 nomine, 3 trasferimenti, 2 avvii agli studi) e della nomina di 5 laici in 16 parrocchie (di cui sei di Bari), comprese nel perimetro della diocesi Bari – Bitonto. Val la pena ricordare che, in totale, le parrocchie sono 127 e i sacerdoti 341, di cui 174 secolari e 167 regolari. Una gran bella realtà composita e complessa.
Meraviglia non poco che le “scelte pastorali” siano state rese pubbliche proprio all’apice del periodo di ferie, e trasmesse alle parrocchie in questi giorni in cui le stesse risultano “particolarmente” deserte. Cosicchè molti fedeli troveranno la “sorpresa” al rientro. Non si hanno notizie di consigli pastorali parrocchiali informati o coinvolti in tali decisioni. Tutti sono stati informati dalla stampa a scelte compiute.
Eppure non parliamo della sorte del “sagrestano”, con tutto il rispetto per questa figura, ma del pastore di una comunità ecclesiale, della sua guida. Il vescovo come ha coinvolto, dunque, organismi, parroci, comunità? Tutti costoro sono stati informati o posti di fronte ad una decisione già presa?
Totalmente condivisibile il pensiero con cui mons. Satriano introduce le scelte compiute: “L’Anno Santo, ormai alle porte, ci invita a cogliere il valore della speranza come dimensione vitale per la Chiesa e per il mondo. Viviamo giorni non semplici, faticosi per tutti, e le sfide del quotidiano possono attentare alla speranza, rubandocela. Sempre radicati nella nostra fede in Cristo Gesù, desideriamo realizzare quella partecipazione, comunione e missione che sono l’anima di un cammino condiviso, nel quale disegnare una visione di futuro che possa rispondere alle urgenze del momento”. E ancora: “Nel discernimento posto in essere, guardando con attenzione alla nostra vita ecclesiale, ai presbiteri, alle comunità e alle sfide su cui siamo chiamati a riflettere come Chiesa, ho cercato, attraverso il confronto personale e l’ascolto della realtà, di individuare passi possibili che ci aiutino a crescere. Per tale ragione invito tutti ad accompagnare tali scelte con la preghiera e il sostegno di una fraterna vicinanza e condivisione”.
La lunga citazione esprime correttamente la speranza, la fede che dovrebbe caratterizzare ogni cristiano nella vita ecclesiale con i propri sacerdoti, nelle rispettive comunità: “un cammino condiviso” perché “desideriamo realizzare quella partecipazione, comunione e missione” “radicati in Cristo”.
Il problema è: quel cammino il cui valore è affermato così solennemente con chi e come è stato compiuto? Ma prima ancora: è stato realmente realizzato? Ogni parola ha un valore e un peso.
“Noi oggi parliamo male e abbiamo bisogno di ecologia linguistica – afferma il latinista Ivano Dionigi, presidente della Pontificia accademia di latinità ed ex rettore dell’Università di Bologna -. Simili agli abitanti di Babele, rischiamo di non capirci più; vittime di una comunicazione frettolosa, malata e talvolta anche violenta, smarriamo il vero significato delle parole”.
Cito, per analizzarle, solo due parole: resilienza e discernimento. Ma ci sarebbe da aggiungere “ascolto della realtà”, espressione che tuttavia non è meglio specificata. Una volta si usava dire: “sono stato molto prudente, ci ho pensato, ci ho riflettuto”. O anche: “mi sono consultato, con persone irreprensibili, autorevoli, sagge. Poi, ho preso le mie decisioni”. Come per la parola resilienza: oggi in realtà piuttosto abusata, è entrata nel vocabolario corrente addirittura per definire il mega Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), approvato nel 2021 dall’Italia per rilanciare l’economia dopo la pandemia e consentire lo sviluppo verde e digitale del paese.
Così, la definisce il vocabolario Treccani: 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.
Di quanta capacità di reazione possono essere dotati sacerdoti e comunità rispetto a decisioni che a volte determinano difficoltà? Essere obbligati a “lasciare” la parrocchia a 75 anni ed oltre, o ad essere avvicendati dopo una permanenza di 9 anni in un incarico parrocchiale?
Inutile negarlo, ma non può essere diversamente, il dover “cambiare” è sempre doloroso. Ogni persona crea relazioni e il “fine mandato” è sempre doloroso. Molti sacerdoti, sono anziani, soli, senza familiari in grado di ospitarli, e spesso con una salute cagionevole. Al riguardo va ricordata la grande intuizione e la paternità dell’arcivescovo Enrico Nicodemo che costruì, accanto al nuovo seminario arcivescovile, in corso Alcide De Gasperi a Bari (già corso Sicilia), la Casa del clero che, purtroppo ad oggi, ospita solo pochissimi sacerdoti.
Le scelte che si adottano nei confronti dei sacerdoti non sono solo pastorali, riferite cioè alle comunità da cui si distaccano, ma anche personali, esistenziali. Con tutto quello che ne consegue sul piano umano per i sacerdoti “costretti” all’avvicendamento. La ragione per cui ogni decisione va assunta con sensibilità e paternità.
Ma analizziamo ora la parola discernimento. Si tratta della facoltà di “formulare un giudizio o di scegliere un determinato comportamento, in conformità con le esigenze della situazione. Criterio di valutazione, sul piano morale o intellettuale”. Generalmente si usa questa parola per indicare la capacità di distinguere tra bene e male, attivando criteri di valutazione sia sul piano morale sia intellettuale.
Queste due parole – resilienza e discernimento – le avvertiamo roboanti. Le usiamo forse per dare “spessore” al nostro dire. A volte per incutere “timore” o per sottolineare “distacco” dal nostro interlocutore. Certamente le sceglie e ama usarle nel suo linguaggio chi esercita, non poche volte abusandone, un potere.
Anzicchè consultare, ascoltare organismi più o meno corposi, costituiti e preposti per esprimere giudizi, valutazioni su fatti e persone, compiacimento o meno per scelte da fare e proposte, ci si ferma al discernimento, a questa parola magica, cioè all’azione personale di una singola persona, chiamata in ogni caso a compiere e a promulgare scelte.
Se in una comunità esistono diversi organismi consultivi collegiali – tornando alle scelte pastorali dall’arcivescovo – sarebbe opportuno conoscere le volontà espresse e capire, per esempio in queste ultime nomine, che ruolo e che peso hanno avuto i sacerdoti “consultori”.
Il Collegio dei consultori – è bene ricordarlo – è un organo consultivo collegiale del vescovo sulle più importanti questioni della diocesi, composto da un gruppo di sacerdoti (da 6 a 12) membri del Consiglio presbiterale in carica, eletti dal vescovo per un quinquennio. Così come è importante capire ruoli e prerogative dei membri del Consiglio presbiterale, del Consiglio pastorale diocesano, dei Consigli pastorali parrocchiali.
Il Codice di Diritto Canonico nel definire la struttura interna delle chiese particolari, chiarisce ruoli e prerogative del Consiglio pastorale e del Collegio dei consultori. “In ogni diocesi – si afferma – si costituisca il consiglio presbiterale, cioè un gruppo di sacerdoti che, rappresentando il presbiterio, sia come il senato del Vescovo; spetta al consiglio presbiterale coadiuvare il Vescovo nel governo della diocesi, a norma del diritto, affinché venga promosso nel modo più efficace il bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui affidata”.
Organismi tutti puntualmente definiti, prontamente eletti o nominati, ma che non vengono attivati o sono coinvolti con fatica. Con il risultato che si azzera la partecipazione, s’impedisce la corresponsabilità, si accentra tutto il potere nelle mani di chi ha il dovere di fare proposte, ma anche il dovere di dare la parola e di parlare per ultimo.
Per non parlare di chi, anche a distanza di anni privilegia, cerca ancora di dare pareri e consenso a persone altre che, fuori da organismi o ruoli ben definiti, con fare felpato avvertono il bisogno di occupare, di invadere campi evidentemente mai abbandonati. Quando invece, occorre camminare con coraggio, con fede, senza fermarsi a ricercare soluzioni nel passato!
Discernimento, allora, non è sinonimo o, peggio ancora, sostituto di qualsiasi organismo preposto. Una sorta di salvacondotto. Addirittura una “illuminazione”, un “suggerimento”, una “indicazione” ricevuta direttamente da una entità superiore. Il discernimento non è una telefonata alla quale obbedire! Non è una spinta interiore che obbliga. Specie se non consente interventi di cooperazione, di concorso, di sostegno di altri, designati ad esercitare il ruolo di “garanti” della volontà del loro pastore.
Solo la collegialità ricercata, costruita, praticata crea unità. Papa Francesco chiede sinodalità nella chiesa: camminare insieme, pastori e pecore, come Popolo di Dio. Con l’indicazione che il Buon Pastore, messe al sicuro le 99 pecore, va alla ricerca dell’unica smarrita.
“Il Buon Pastore di cui ci parla Gesù, invece, non ci pensa due volte e subito lascia le 99 pecore nel deserto per andare in cerca di quella che manca. La cerca perché per Lui non si tratta semplicemente di un elemento in più (o in questo caso in meno), ma perché per Lui ogni “pecora” conserva in sé un valore unico e infinito, che Lui è disposto a pagare con il suo stesso Sangue”, osserva padre Luis Dias icms.
Il discernimento personale, dunque, rimanda alla collegialità; è aiuto e sostegno alla sinodalità solo se posto a verifica negli organismi ampi o ristrettì previsti dall’organizzazione stessa della chiesa. Che cos’è allora la sinodalità? In termini molto semplici si potrebbe dire che la sinodalità è il coinvolgimento e la partecipazione di tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della chiesa. Fatte queste necessarie precisazioni, occorre verificare come discernimento e sinodalità sono praticate.
Siccome non si governa per decreti, anche le scelte pastorali vanno condivise perché “la sinodalità affonda le sue radici nella corresponsabilità dei battezzati nella missione della Chiesa e nel sacerdozio comune dei fedeli. La sinodalità si concretizza secondariamente nella partecipazione dei fedeli al governo, generalmente come funzione consultiva”. Il discernimento, a sua volta, è la sede, la modalità ideale per raccogliere quanto emerso dalla consultazione.
È qui che emerge tutto il ruolo e la capacità di guida del vescovo perché egli non è dotato di tutti i carismi, ma del carisma dell’insieme. Funzione che può esercitare pienamente e con efficacia solo dopo aver ascoltato il Popolo di Dio. Anche i laici chiedono di poter fare la loro parte, sotto la “protezione e l’intercessione della Vergine Maria”.
La vera notizia, allora, non è il trasferimento o l’avvicendamento dei parroci, ma come a loro è stato consentito il massimo, reale coinvolgimento nella gestione dell’intera questione, in uno e in sintonia con il vescovo e con il Popolo di Dio.
In mancanza, tutto ha il sapore come di un “decreto ingiuntivo”, per i sacerdoti che hanno solo l’obbligo all’obbedienza. In tal modo cresce la sofferenza per la solitudine e la fatica che ha caratterizzato la loro vita, ma che al volgere del tempo li porta a sentire il dolore di “non essere più significativi”.
Il generico “ascolto della realtà”, non meglio definito, diventa la surroga degli organismi ecclesiali di partecipazione e del popolo di Dio. Sarebbe bello poter veder attuato quell’auspicio che ben definisce il cammino da fare: “partecipazione, comunione e missione sono l’anima di un cammino condiviso”. E se così non fosse, vorrà dire che anche il sinodo può aspettare!