In quest’ultimo mese, a Bitonto e non solo, si è discusso della difficile e complessa realtà del carcere. Nicola Petruzzelli, direttore dell’istituto penale per minori di Bari, è stato invitato dall’Associazione Docenti a parlare di disagio giovanile e di come evitare che i ragazzi finiscano in prigione. All’incontro organizzato dalla Fidapa, ha partecipato, invece, Caterina Acquafredda, ex direttrice del carcere di Altamura, insieme alla psicologa Lizia Dagostino, che ha da poco pubblicato un libro dal titolo Temi di formazione con la Polizia Penitenziaria. Un’interessante analisi non solo sulla condizione dei detenuti di ambo i sessi, ma anche sul lavoro delle guardie penitenziarie, che non devono mai perdere di vista l’umanità di chi, per un motivo o per un altro, finisce dietro le sbarre.
Quando si parla di carcere non si può non partire da una premessa fondamentale: “gli uomini e le donne sono degni di vivere perché esistono, non per quello che fanno”, scrive Dagostino. Non per quanto dimostrino di essere buoni, ma in quanto esseri umani. È qui il discorso si complica, si fa difficile da sostenere; appare come una sfida al più alto precetto della religione cristiana: amare il prossimo come se stesso. Come si può amare chi ha commesso qualcosa di terribile? Come si può rimanere esenti da pregiudizi?
La risposta arriva da un regista bitontino, che si è inserito in un dibattito molto acceso, alimentato dalle diverse inchieste sui pesanti trattamenti inflitti ai detenuti dalle guardie carcerarie. Una realtà che rende ancora più difficile la vita di chi è detenuto, tra vecchie strutture, sovraffollamento, solo qualche laboratorio per apprendere un lavoro e un numero di suicidi che quest’anno è già a quota 34 contro i 70 del 2023. Vito Palmieri con il suo film La seconda vita (in questi giorni nelle sale e in diversi istituti carcerari) ci spiega che l’unico modo per amare chi ha vissuto l’esperienza del carcere è provare a conoscerlo. Solo avvicinandosi alla sua vita si può provare, infatti, un sentimento di empatia e, per una volta, sospendere il giudizio nei suoi confronti. Mettersi nei panni di chi ha sbagliato è fondamentale per apprezzare i suoi sforzi di redenzione; per consentire ad una persona, che spesso è stata molto sfortunata, di reinserirsi nella vita di tutti i giorni, trovare un lavoro, avere l’opportunità di una seconda chance.
La seconda vita è un invito all’umanità, alla possibilità di essere felici nonostante il passato. Una riflessione, anche amara, sulla natura delle cose, sulla loro gravità e sull’aspirazione a vivere finalmente una vita normale, che spesso è la definizione di una vita felice. “L’idea di scrivere e girare questo film nasce da una serie di lezioni di cinema svolte nel carcere di Bologna” spiega il regista, mentre chiacchieriamo al tavolino di un bar, il giorno dopo la presentazione del suo lavoro a Bitonto. “Quella è stata un’esperienza preziosa, come altre da cui ho tratto spunti originali da portare sullo schermo”, osserva Palmieri.
Le lezioni, tenute presso la casa circondariale Dozza-Rocco d’Amato, hanno offerto al regista la possibilità di comprendere la realtà del carcere, di capire come vivono i detenuti; di conoscere le loro speranze per il futuro, al di là delle fredde sbarre della prigione. “Stando a contatto con queste persone, parlando, mi sono confrontato su tematiche molto personali, instaurando un dialogo costruttivo sul tema delle emozioni. Sono venuti fuori tantissimi racconti non tanto sulla vita prima della prigione, ma sul futuro, su cosa avrebbero fatto una volta fuori dal carcere, racconta Palmieri sorseggiando il suo caffè amaro.
“Proprio ciò che personalmente mi interessava di più: capire come sarebbe stato per loro tornare alla vita di tutti i giorni, recuperare i legami affettivi e allacciarne di nuovi”, prosegue. E, infatti, i quesiti che il film pone sono proprio questi, come chiarisce il regista: “Può una persona, dopo aver scontato una pena di tanti anni, avere ancora una vita normale? Può una persona, in questo caso una donna, innamorarsi di nuovo?”. La seconda vita (prodotto da Articolture e da Lo Scrittoio con il sostegno dell’Emilia-Romagna Film Commission) racconta la storia di Anna (Marianna Fontana), un’ex detenuta dal passato oscuro, che si rivela via via nel corso del lungometraggio, girato tra Bologna, Rimini e Peccioli, un paesino in provincia di Pisa dove si trasferisce per ricominciare a vivere.
Ma il suo cammino verso una ritrovata normalità sarà lastricato di problemi, che rischieranno di precludere il suo progetto di essere “semplicemente felice”, di avere insomma una seconda possibilità. È come se, per quanto s’impegni e nonostante sia pentita delle proprie scelte, non riesca a liberarsi di un passato “così ingombrante”. Un neo, un marchio che non riesce a scrollarsi di dosso. Palmieri riflette con particolare delicatezza sulle seconde occasioni, senza tralasciare le reali difficoltà che s’incontrano fuori dal carcere. Non racconta una fiaba, ma una storia vera fatta di pregiudizi. Senza, tuttavia, precludere uno spiraglio di speranza, al di là di tutti i pregiudizi. Una lezione di vita, non solo di cinema, è quella di Palmieri; un invito a tener duro e a non farsi schiacciare dalle convenzioni sociali.
“A tutti deve avere concessa una seconda vita. Anche a chi viene da un passato tremendo, duro, come quello della protagonista del film, che prova a rinascere, a rimettersi in piedi, scontrandosi con l’ostacolo più grosso: perché una condanna, una sentenza, ha una fine, i pregiudizi purtroppo no. E in più, volevo raccontare la storia di un amore impossibile, tra Anna così introversa e col suo passato oscuro, e Antonio (Giovanni Anzaldo, ndr) timido e incapace di fare delle scelte. Mi piaceva l’incontro di queste due persone sole e inaspettatamente molto simili tra loro”, racconta l’autore e non nasconde che uno dei film che l’ha ispirato è Manchester by the Sea, scritto e diretto nel 2016 da Kenneth Lonergan, a parere del regista uno dei film più belli degli ultimi anni: “specie per l’uso dei flashback attraverso i quali si ricevono informazioni particolarmente importanti sul passato di un personaggio così misterioso come quello di Anna”.
Un’altra pellicola a cui l’autore si è rifatto è La figlia oscura, esordio alla regia del 2021 di Maggie Gyllenhaal (“una narrazione interamente al femminile, che si serve di rapidissimi flashback, per scoprire il passato della donna”) e, ancora, l’ultimo film di Uberto Pasolini, The return (“per la semplicità del racconto”). Palmieri spiega che non appena ha avuto l’idea di trattare un tema così complesso si è subito confrontato con la psicologa che lo ha affiancato nelle lezioni di cinema in carcere, cominciando a scrivere la sceneggiatura con Michele Santeramo, suo storico collaboratore di Terlizzi.
Palmieri è un tipo che non sta mai fermo. Per non perdere tempo, mentre attende che lo raggiunga in redazione per l’intervista, è andato a provare un paio di occhiali da sole nel vicino negozio di ottica. Muove continuamente i piedi mentre fa volteggiare le mani per illustrare quanto va dicendo, così da spingermi a pensarlo ragazzo mentre attraversa le strade di Bitonto per raggiungere il liceo classico dall’altra parte della città. E poi solo, ma pieno di speranza, quando si trasferisce a Bologna per frequentare il Dams e realizzare il sogno di fare il regista. Un amore per il cinema nato e cresciuto insieme a lui e pronto a regalargli da subito molte soddisfazioni: Tana libera tutti, candidato al David di Donatello, dopo il suo film d’esordio, See you in Texas, con cui ha vinto nel 2015 il Grand Prix del pubblico di Shanghai. E ancora i premi a Il giorno più bello e ai due corti Matilde e Il Mondiale in Piazza, dopo il primissimo, Al mare, girato nel 2005 con Mimmo Mancini, Eliana Lupo e Massimiliano Sassi, col direttore della fotografia, oggi tanto celebre, Michele D’Attanasio. Un corto, quest’ultimo, di cui Palmieri fa cenno ne La seconda vita, in un dialogo in cui la protagonista manifesta il desiderio di andare al mare, in una scena che è fondamentale per rendere la semplicità del racconto, la delicatezza della storia che si racconta. Qualcosa che fosse oltre il dramma o la commedia. Una storia densa di umanità.
“In questo nuovo film ho voluto raccontare non solo il conflitto esterno ma anche quello interno alla stessa protagonista, che deve perdonarsi, fare pace con il suo passato, con i suoi errori per andare avanti“, spiega il regista. “Prima di questo film ho avuto la possibilità di girare un documentario sul tema del carcere e conoscere molte persone che hanno riflettuto a lungo su quanto avevano commesso, pentendosi e trovando alla fine un modo per accettarsi. Incontri che mi hanno permesso di capire meglio come sia centrale riuscire a riconciliarsi con se stessi”, conclude.
E qui termina l’intervista. Non prima, ovviamente, di aver passato in rassegna una quantità di film, di attori e cineasti per sottolineato insieme, con tutto l’amore viscerale che ci lega al grande schermo, che il cinema è davvero la vita o la “seconda vita”, per certi versi ancora più attraente e fascinosa della prima.
Nella foto in alto, Antonio e Anna protagonisti del nuovo film di Vito Palmieri