Grazie al suo “atleta”, il MarTa non teme alcuna sfida

Tra Temporary Art e mostre d'arte contemporanea, come quella del fotografo Bob Gruen dedicata a John Lennon e Yoko Ono, la nuova vita del museo archeologico di Taranto

Il MarTa, il grande e ricchissimo museo archeologico di Taranto, si arricchisce di una nuova iniziativa, la Temporary Art: ad accogliere i visitatori, all’ingresso dell’edificio, sarà una grande teca di vetro e acciaio in cui mostrare, a turno, alcuni degli oltre seimila reperti rinchiusi nei depositi e mai esposti sinora. Una sorta di preview di quanto sarà possibile ammirare lungo corridoi e sale, con il pezzo forte della mitica raccolta di oggetti e monili d’oro. L’ennesima, interessante iniziativa della neodirettrice, Stella Falzone. Ma ora riavvolgiamo il nastro e cominciamo daccapo.

Era il 9 dicembre del 1959, quando un gruppo di archeologi ritrovò un bellissimo sarcofago all’interno di un’antica tomba. Una sepoltura sontuosa, con all’interno ben quattro anfore che raffiguravano scene di vittorie olimpiche. Gaspare Baggieri, l’archeologo che guidava la spedizione, sapeva di aver realizzato una scoperta di straordinaria importanza, perché quei resti che si apprestava a recuperare e quel ricco corredo che li ammantava appartenevano a quello che è stato soprannominato l’Atleta di Taranto.

Il suo scheletro si era conservato praticamente intatto e Baggieri poté stabilire con esattezza che dovesse avere trent’anni al momento della morte, che fosse alto 1 metro e 70, un’altezza considerevole per l’epoca, e che avesse un peso di 77 kg. Che non fosse una persona come tutte le altre erano quei quattro vasi a testimoniarlo, su cui erano dipinte quattro scene di vittorie, conseguite al Pentathlon, una gara sportiva nota per la sua complessità, articolata in cinque prove: stadion (gara di velocità per circa 176 m), salto in lungo, lancio del giavellotto, lancio del disco e, infine, lotta greca. Vincere una sola volta era pressocché impossibile. Figuriamoci cosa dovesse significare per un greco comune assistere a così tante vittorie. L’uomo noto come l’Atleta di Taranto doveva essere pari ad un dio.

In Grecia, lo sport aveva un’importanza di primissimo ordine. I grandi atleti erano veri e propri divi, venivano dedicati loro versi incredibili, il loro nome riecheggiava nelle storie, al fianco di eroi come Achille e Paride. A loro erano tributati incredibili onori, che poi si riflettevano in queste tombe immaginifiche. Forse potremmo paragonare l’interesse che i greci nutrivano nei confronti di questi supereroi a quello di oggi per gli attori, cui concediamo un’importanza che sfiora la divinizzazione. Le quattro anfore sono conservate in una sala del MarTa, il museo nazionale archeologico di Taranto, tra i più importanti e ricchi d’Italia, il cui primo nucleo risale alla seconda metà del XVIII secolo.

Il museo possiede una collezione di reperti davvero straordinaria, che spazia dalla protostoria fino all’epoca altomedievale. Si trovano manufatti di valore, che hanno aiutato a ricostruire passaggi salienti della storia della città e a determinare come finanche il mito abbia un fondo di verità, alludendo ad eventi storici realmente accaduti secoli orsono. Viene in mente quanto si apprendeva a scuola, cioè che Taranto fosse stata colonizzata da Sparta in circostanze particolari. Secondo il mito – confermato, per l’appunto, dai ritrovamenti archeologici situati nel museo stesso – la città sarebbe stata fondata intorno al 706 a.C., ma non dagli Spartiati, bensì dai Partheniai, cioè i “figli delle Vergini”. Ma procediamo con ordine.

Difficile raccontare in poche righe chi fossero gli Spartiati, ma potremmo definirli i “veri spartani”, i purosangue; quei combattenti che si erano distinti per coraggio e forza e, soprattutto, erano sopravvissuti al rigido addestramento militare, che mieteva vittime anche tra i più valorosi. Più facile è, invece, spiegare chi fossero i Partheniai, cioè i nati da Spartani e Messeni, durante le guerre tra Sparta e Messenia, chiamati così perché non riconosciuti dai loro padri. Ci fu una rivolta da parte di questi ultimi e, allora, gli Spartiati consultarono come d’abitudine l’oracolo di Delfi e inviarono gli insorti in Occidente, perché fondassero una colonia e non tornassero più in patria. Volevano che fossero riconosciuti i loro diritti? Ebbene, che fondassero un luogo a loro più congeniale. A capo dei rivoltosi c’era Falanto, un semidio figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, che viene spesso raffigurato sulle monete a cavallo di un delfino. A lui e al fiume Taras si deve il nome di Taranto.

Gestire un museo tanto ricco (sono 16.000 i reperti in mostra) non è facile, specie in una città con talmente tanta storia, con talmente tanto da vedere. Eppure, sono ormai quattro mesi che Stella Falzone, nota archeologa romana, ha in mano con successo le redini di questo museo “straordinario“, com’è stato definito da lei stessa. “Il mio obiettivo è inserire contenuti, declinati in maniera nuova e personale – spiega, illustrando l’idea di un museo Art in progress e riallacciandosi alla precedente gestione di Eva degl’Innocenti – ma senza mai dimenticare le esigenze della città”. Bisognerebbe, infatti, rilanciare il chiostro in piazza Garibaldi, come fa notare la direttrice, riorganizzare la hall, puntare sulle mostre temporanee, ma anche aprire una caffetteria, in modo da spingere chiunque a respirare un po’ l’aria del museo. “Valorizzando le grandi collezioni che ha il museo e che sono di primaria importanza – come osserva la direttrice – a partire dal set di anfore del grande atleta tarantino, ma aprendosi anche ai grandi temi della cultura contemporanea”. Proprio in questi giorni, infatti, il MarTa ospita la mostra Bob Gruen: John Lennon, The New York Years, che racconta, attraverso 60 fotografie e testi, la collaborazione più importante del fotografo, ovvero quella con John Lennon e Yoko Ono.

Sono una ricercatrice e vorrei portare la mia esperienza in questo che è un museo di territorio, senza mai dimenticarne le specificità” sostiene. Per questo il museo sta puntando alla digitalizzazione di 40mila reperti, sul 3D, in modo da coinvolgere i più giovani e rendere più interessante la storia antica. “La tecnologia è un’arma incredibile – dichiara – che va necessariamente adoperata. Faremo anche ricorso alla archeometria, un metodo scientifico applicato ai beni culturali. Lo utilizzeremo soprattutto per affinare alcuni dati sulla cronologia e provenienza di una parte della collezione del MarTa“. Poi, per quanto riguarda i prestiti, Falzone sfrutterà la sua esperienza ventennale presso l‘Istituto di cultura antica dell’Accademia austriaca delle Scienze, a Vienna, e intreccerà collaborazioni anche fuori Europa. La direttrice sta, inoltre, puntando all’ottimizzazione delle stanze degli spazi del museo per ospitare mostre di grande valore: “L’idea di fondo è prima di tutto recuperare una narrazione all’interno del museo e storicizzarla. Ritengo che sia un modo per dare ulteriore valore a questa straordinaria realtà“. 

I progetti sono tanti e ambiziosi, ma ammetto di essere fiduciosa. Basta passeggiare per Taranto per vedere ovunque del potenziale. Il MarTa è il riflesso della sua città. Un museo straordinario all’interno di un altro museo a cielo aperto. Non è una città facile da raggiungere, specie per chi viene da fuori. Ma questo non significa che le sue incredibili risorse debbano essere lasciate a se stesse. Il territorio deve farsi carico di tante difficoltà, ma vista la sua ricchezza è una fatica di poco conto. Sono certa varrà la pena insistere su quanto di bello conserva” conclude la direttrice del museo. Ma se il suo atleta migliore ha vinto per cinque volte la gara più difficile dell’antichità, confidiamo che anche la neodirettrice del museo possa riuscire in tutti i suoi obiettivi. In caso di cedimenti, potrà sempre invocare l’anima del grande atleta.

Le foto sono tratte dal sito ufficiale del MarTa. In alto, la direttrice, archeologa Stella Falzone