In uno dei suoi saggi più ispirati, I quattro maestri, il filosofo Vito Mancuso parla di quattro figure che, per motivi diversi, sono state fondamentali all’interno della storia e nella creazione del pensiero. Quattro personalità spesso antitetiche, ma che hanno in comune il desiderio di conoscere e di squarciare il velo di falsità che ammanta la realtà, chiarendone la vera natura. L’unico elemento che sembra interessare tutti loro è la verità. E possiamo solo immaginare, in tempi così oscuri, quanto sarebbe necessario fare luce come solo la verità e l’onestà sanno fare. Tra questi quattro maestri, Vito Mancuso – sulla scia di un altro saggio di Karl Jasper – ricostruisce la vita e il pensiero di un uomo che non ha lasciato nulla di scritto, un po’ come Gesù, ma di cui ci sono giunti i dialoghi, grazie al suo allievo Platone, e la sua preziosa difesa in tribunale, davanti ai cittadini di Atene. Si parla di Socrate, il filosofo che ha dato inizio alla filosofia detta “morale”.
Di Socrate sappiamo che amava la virtù più di ogni altra cosa. Diogene Laerzio racconta in Vite dei filosofi che questo cittadino ateniese, mentre assisteva ad una tragedia di Euripide (l‘Auge, opera che non ci è pervenuta, ma si può ritrovare la stessa espressione al verso 379 dell’Elettra) si sarebbe alzato dal suo posto e se ne sarebbe andato. Questo perché aveva sentito uno dei personeggi sostenere: “La virtù? La cosa migliore è lasciarla andare secondo il caso“. Una provocazione, quella del tragediografo, che aveva riempito di sdegno il filosofo. Questo, come tanti episodi della vita di Socrate, non è detto che sia reale, ma ci fa capire benissimo quale alta concezione avesse il filosofo della virtù (l’ἀρετή), che potremmo definire il vero valore spirituale di ogni essere umano, la sua propensione a fare e perseguire il bene.
Socrate non era un tipo facile e, nello spettacolo teatrale messo in scena al Teatro Traetta di Bitonto, si è riusciti a mostrare come fosse questo curioso filosofo, interpretato da Franco Ferrante. Non era il tipo che si faceva piegare dagli eventi, né tantomeno era persona da accettare una situazione piuttosto che affrontarla. Aveva una gran considerazione della sapienza e si era reso conto che questa non si trovava presso gli intellettuali, i politici o chi sosteneva di averne a fiotti; ma negli artigiani, nei lavoratori, in coloro che conoscevano un mestiere e sapevano praticarlo a regola d’arte. Perciò, parlava con chiunque, in piazza, nelle palestre, ovunque vi fosse gente, e smascherava la pochezza e l’ipocrisia di chi si riteneva sapiente e credeva di saperne più di tutti gli altri.
Eppure, non occorre aver studiato greco per diversi anni per rendersi conto che fosse un gran furbacchione. I suoi accusatori – che rintuzzerà a regola d’arte nella sua apologia, pur sapendo che le sue parole non gli saranno utili – prima che Socrate prenda la parola in sua difesa, inviteranno gli uditori a non lasciarsi ingannare dall’abilità oratoria del filosofo. Socrate potrà anche ammettere di essere un “bravo parlatore”, ma solo perché dirà la verità e non si servirà di una falsa retorica come i suoi accusatori. La sua difesa è, purtroppo, la cronaca di una morte annunciata e la scenografia dello spettacolo lo fa ben comprendere con i pannelli neri che, in un bellissimo gioco di luci, appaiono come vere e proprie lapidi, le cui ombre si stendono sulla figura del filosofo. Un triste presagio di quello che sta per accadere.
L’adattamento di Nicola Pice presenta, oltre all’apologia in sé, anche parti del Fedone, e prevede l’intromissione anche della giuria, interpretata dal regista Raffaello Fusaro e di un danzante e saltellante Leonardo Capaldi, che veste il ruolo di grillo parlante o, meglio, del fool del teatro shakespeariano, un personaggio dall’aspetto e dai modi clowneschi, che ha l’ingrato compito di dire sempre la verità e di smascherare le menzogne. In questo particolare caso, il fool, con i suoi salti e motteggi, svela la farsa di questo processo, con un verdetto già scritto e una morte già annunciata. E non manca di sottolineare, inoltre, la triste tragedia che investe, alle volte, gli innocenti, all’interno di un sistema truccato, all’interno di un governo che vuol liberarsi di chi non riesce a gestire e a controllare. E che si serve di false accuse, o almeno di accuse eccessive, per aizzare la folla, così mutevole nelle sue simpatie e antipatie, contro di lui.
Ma quello che ha contribuito a togliere potenza drammatica alle parole di Socrate, non sono stati gli interventi della giuria o le musiche che, di tanto in tanto, hanno sottolineato l’assurdità e la tragedia di quanto sta accadendo sulla scena. Né le intromissioni clownesche del fool, ma la formula con cui si è scelto di trasmettere al pubblico le parole, potentissime, che Socrate adopera per difendersi. Il grande filosofo, infatti, noto per il detto “so di non sapere” e che non ha mai scritto nulla in vita sua, leggeva la sua apologia: un espediente, che sia pure accurato da un punto di vista storico, ha purtroppo minato la drammaticità del momento. Avrebbe avuto assai più presa sul pubblico che Socrate recitasse la sua apologia, anziché leggerla.
Mi domando in quanti avranno capito la sua difesa, le sue ragioni, la potenza di chi (al di là dell’evento in sé) difende la libertà ad ogni costo e si fa difensore di una certa visione della vita e della filosofia? Una pedagogia che insegna il sacro valore della virtù e della verità, al di là della menzogna dei sofisti – tra i quali Aristofane, nelle sue Nuvole, annoverava per scherzo o a ragione Socrate – e dei politicanti dell’epoca che, un po’ come accade oggi, mascherano la verità e si servono di un linguaggio retorico e falso per incantare e ingannare il popolo? In quanti, al di là degli esperti in sala, hanno davvero capito l’importanza di Socrate? L’ingiustizia che è stata compiuta ai suoi danni? E, dunque, che senso ha per un’opera classica vivere e morire all’interno di una cerchia ristretta di persone, che hanno studiato e continuano a studiare le lettere antiche, invece di aprirsi ad un pubblico più vasto, che possa trarre giovamento e insegnamento da quanto visto e ascoltato?
Il testo, quindi, sarebbe stato assai più fruibile e non avrebbe perso la sua forza e potenza drammatica, se fosse stato recitato e non letto dal bravissimo Franco Ferrante. Un gran peccato davvero, perché in tempi tanto oscuri – in cui neppure la stampa assolve al suo compito primigenio di dire la verità, riportando con lucidità i fatti e senza censura – abbiamo bisogno di qualcuno come Socrate, che non tema mai di svilire e svigorire il potente di turno e di mostrare la verità, anche quando è doloroso accettarla. Riprendendo il saggio di Mancuso, con cui si è aperto l’articolo, è specialmente adesso che avremmo davvero bisogno di una guida come Socrate, di un maestro di tale portata e di un tale coraggio.
Le foto di Franco Ferrante sono tratte dalla pagina fb dell’attore