La figura del ‘postfatore’, nel contesto dell’organizzazione dei contenuti all’interno di un libro, è da qualche tempo in via di estinzione in gran parte dell’editoria. E pur è chiamata e invitata a svolgere per definitionem il suo ruolo – se possibile con grande discrezione e la massima sensibilità, in armonia con il ben più importante contenuto dell’opera in via di pubblicazione da parte dell’Autore – in quella che è la sua classica, non marginale funzione di estensore di una nota di commento nel paratesto finale. Nel nostro caso chi è stato inaspettatamente invitato a redigere la Postfazione si riscopre come un ‘privilegiato’ davvero fortunato, e duplicemente: da un lato per la obiettiva condizione di essere il primo lettore del libro (insieme al curatore della Prefazione), dall’altro per essere nipote di Francesco Speranza.
Alla mia reazione di primo smarrimento, dopo l’invito di Emanuele Cazzolla, l’autore del libro, a scrivere, ha fatto seguito una grande gioia, presto ‘dipinta’ di una indescrivibile ‘corrispondenza di amorosi sensi’ e di immutato, rinnovato affetto per zio Franco. E tutto questo proprio nel momento in cui con una certa lena ho ripreso nelle mani i suoi Diari, affidatimi con amorevolezza da zia Marina qualche settimana prima di ricongiungersi con il suo Francesco. Una prima sensazione foriera di indefinite scoperte in fieri, che mi ha colto accostandomi con occhi interessati e pure commossi alle prime pagine del presente lavoro, si cangiava lentamente ma inesorabilmente in un forte presagio: quello di assistere presto, quasi per incanto e in diretta, ad uno sforzo maieutico, di pura gestazione di un lavoro speciale, che si propone di tentare una definizione (non solo cronologica), anzi una ‘sistemazione’ ideale dell’opus e degli avvenimenti di Speranza che hanno solcato il Novecento per ben otto decenni.
Naturalmente sono stati preziosi, né poteva essere diversamente, non solo alcune testimonianze dirette, di prima mano, ma anche i vari contributi bibliografici (di per sé non numerosissimi) e giornalistici (in grande quantità), da reperire nella vasta e variegata messe editoriale e poi da ‘inventariare’ con cura autenticamente ricercatrice. La passione e la pazienza certosina nell’indagine da parte dell’Autore mi hanno indotto ad approfondire alcuni aspetti della figura di Speranza: diciamolo subito, ben al di là delle posizioni della critica ufficiale e delle considerazioni ormai consolidate sul ‘Pittore di Bitonto e di Milano’.
Ogni Artista – e quindi anche Speranza – è diventato ciò che è (stato) anche in virtù di ben definiti stili di vita e particolari aspetti della sua vita privata: forse è da gridare allo scandalo, tanto da far strappare le vesti a certi critici ortodossi, se qui si vuole menzionare anzitutto la sua lezione di vita come componente essenziale della sua Arte? Non vi è mistero che tutti siano affascinati dall’arte di Speranza, tanto che persino chi non è mai stato un frequentatore assiduo delle sue mostre, o semplicemente non ha avuto dimestichezza con i suoi quadri, riesce a leggere la sua pittura, oltre modo chiara ed esplicita.
Qual è il motivo per cui i suoi paesaggi pugliesi, il mare della sua terra, gli ulivi delle nostre campagne, ecc. ci incantano ancora, donandoci pace e serenità ogni volta che li rivediamo? Da cosa scaturiscono l’ammirazione e spesso l’affetto dei vari studiosi ed esperti d’arte, fra i quali menzioniamo almeno il finissimo critico d’arte del “Corriere della sera” Leonardo Borgese? Se il Maestro sa indubbiamente il fatto suo, forse non tutti sanno che per Speranza la pittura è solo un mezzo, e pur un formidabile ‘espediente’ al servizio dell’animo. Al di là del suo frequente accostamento ad un umile “francescano”, in realtà è il suo essere pieno di orgoglio nel ‘servire’ gli altri che va sottolineato, come più volte i suoi Diari evidenziano. E questo, ben sapendo che ‘servendo’ la figura umana nel suo quotidiano operare con il pennello e salvandone poi a pieno l’immagine, il suo orgoglioso ‘servire’ assumerà un significato ben più ampio e dilatato, vale a dire quello di ‘servire e salvare’ gli uomini.
Le stesse sembianze (ugualmente evocate da alcuni critici che pensano di inserire il primo Speranza nella schiera dei primitivismi del sec. XIX) da lui assunte come “nazzareno” anelante all’antica purezza cristiana, lungi dall’essere qualcosa di studiato ed artefatto, testimoniano uno spiritualismo ben più moderno, tutto da riscoprire e da ricercare pazientemente nella sua ben definita poetica artistica. Al di là dei suoi stili di vita, d’artista e di uomo – da un lato codificati nella memoria e nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto e soprattutto frequentato, dallaltro raccolti nella scrittura diaristica dello stesso protagonista e raccontati non più dal pennello bensì dalla penna – è forse arrivato il tempo di cogliere più da vicino la narrazione ‘mistica’ (e non più soltanto ‘metafisica’) di questo Artista fuori del tempo, che continua a parlarci con le sue tele e il dolce incanto dei suoi paesaggi, un dono immutato e perenne di serenità e di pace per tutti noi.
Questa posizione rinnovata nella fruizione della sua arte, persino nel meraviglioso (così polivalente!) “naufragio nell’incantamento di Speranza” – così caro allo stesso Raffaele Nigro –, tanto sul versante critico quanto su quello dello spettatore più comune, merita approfondimenti più rigorosi, che fughino qualsiasi ombra di retorica e pure di mera ipotesi di esercitazione critica, tutta da perseguire e poi da valutare.
Se questo lavoro di Emanuele dà un contributo ulteriore alla definizione e all’inquadramento più preciso di Speranza all’interno delle tante poetiche (non di rado opposte), in cui certa critica si è spesso ostinata a voler collocare il Nostro, qui si vuole piuttosto tentare di sottolineare la ‘spirituale necessità’ della figura di Speranza nel contesto del complesso diorama culturale ed artistico del suo Novecento. La dimensione mistica della sua pittura è un tema tanto affascinante quanto non ancora sufficientemente indagato. Si tratta peraltro di una tematica che prenderebbe le mosse dall’influenza esercitata dal misticismo sulla pittura paesaggistica agli inizi del ́900 (che poi avrebbe favorito anche la nascita dell’astrattismo, mai di casa in Speranza!).
Quando ancora la stagione positivista del tempo esercitava i suoi effetti sulla cultura e lo spirito del tempo, nel considerare unicamente gli aspetti concreti e pratici della realtà, rifiutando ogni forma di metafisica, gli artisti invece iniziarono ad interrogarsi sulle proprie origini e quindi sulla propria cultura religiosa, che in ultima analisi investe il rapporto Uomo-Natura. Ed è proprio questo ‘sfondo naturale’ a diventare luogo dell’esperienza interiore, in grado poi di raccordare la pittura paesaggistica con la dimensione mistica di Speranza, che riesce a cogliere la presenza dell’elemento divino nella Natura. Il linguaggio mistico conosce infatti anche la via delle arti figurative, in cui pure l’espressione pittorica può diventare strumento formidabile (oltre modo ricco, direi impressionante e profondo) al servizio dell’animo e dello spirito, condividendo i tratti mistici più distintivi della metafora e dell’analogia, oltre che nel tentativo di espressione e quindi raffigurazione dell’indescrivibile.
In questo contesto meritano almeno un cenno i suoi frequenti ricorsi ai simboli (ricordiamo solo la croce, l’agnello e il triangolo divino da un lato, le sedie vuote, le nuvolette e la luna dall’altro): all’interno di una singolare ars pingendi si tratta di veri e propri Leitmotive, con cui riesce a ritrovare quella particolare forza evocativa per avvicinarsi al mistero della vita. L’Artista sa bene quanto la potenza inesplicabile dell’espressione simbolica permetta di accedere a Dio in modo spontaneo e vivo, oltre che intuitivo e umile: egli ne (ac)coglie in tal modo la vicinanza, rispettandone nel contempo la trascendenza, E così, in virtù della sua salda fede cristiana, Speranza sembra far scorrere il suo pennello fra il dicibile e l’indicibile, persino evocando nel sensibile la presenza del trascendente, e perciò schiudendo aperture sull’inesprimibile dell’esistenza.
Ciò detto, a scanso di equivoci o di affrettate considerazioni sulla peculiarità e quindi sul valore complessivo della pittura di Speranza, è bene non confondere l’aspetto devozionale o l’iconografia pittorica direttamente connessi alla fede cristiana col senso dell’esperienza artistica in quanto linguaggio particolare dell’uomo. In questa sede si vuole però sottolineare la valenza particolare del ‘sacro’, per il quale il Nostro offre spunti interessantissimi, nel momento in cui il sacro viene inteso come elemento anche pittorico che direttamente introduce al mistero e alle icone della nostra fede: e questo vale ancor di più oggi, nel momento in cui mancano nell’arte spinte forti verso lo spirituale, come pure espressioni autenticamente rivelatrici dell’uomo, delle sue inquietudini e delle sue vere aspirazioni. Beninteso, una volta ribadito che non è da confondere la rappresentazione pittorica di temi sacri con l’elemento autenticamente ‘sacro’.