Con oltre 350.000 operatori, in tutto il paese, il Terzo Settore e la cooperazione sono impegnati, a fianco delle istituzioni sanitarie e sociali, in prima linea nella difficile battaglia al coronavirus. “Siamo in costante contatto con tanti colleghi e molte cooperative stanno rispondendo positivamente all’emergenza. Offriamo supporto ai cittadini e ai soci, facendo valere il principio fondamentale della cooperazione: prima la persona poi il resto”. Sono le parole di Pasquale Ferrante direttore di Legacoop Puglia, l’organismo che mette in relazione oltre 500 cooperative e associazioni, generando opportunità e relazioni tra diverse realtà e individui, oltre a far parte del forum del Terzo Settore.
Pasquale Ferrante ha risposto alle nostre domande sul momento particolare, descrivendo le azioni che Legacoop sta predisponendo, in quanto espressione di una grande fetta di lavoratori, che alla base del proprio impegno pongono l’idea di servizio e relazione: i pilastri su cui si fonda l’intero sistema del volontariato.
Come si sta muovendo il terzo settore? Le misure adottate dal governo con il decreto “Cura Italia” sono adeguate?
C’è un positivo punto di partenza. La Regione Puglia ha riconosciuto il ruolo decisivo dell’attività svolta dal terzo settore: il volontariato e l’associazionismo offrono un grande sostegno alle persone che vivono in condizioni di necessità e di fragilità. Il settore più imprenditoriale, invece, è in grave sofferenza; ma non si può non condividere la scelta di dare priorità alle fragilità rispetto al rischio del contagio, tralasciando il diritto alla cura riabilitativa e all’assistenza socio-educativa. Molte cooperative sono state costrette a sospendere le loro attività e molti servizi sono interdetti. Eppure, proprio il decreto del governo può darci una mano. Prima di tutto, insieme alle istituzioni, stiamo cercando di capire quali siano gli strumenti di supporto ai lavoratori. Come Legacoop abbiamo sollecitato Regioni ed enti committenti ad attivare modalità alternative per l’erogazione dei servizi. Le competenze della cooperazione sociale devono ri-progettarsi; co-progettare servizi in maniera individuale, domiciliare, a distanza e con l’emergenza del coronavirus si dovranno trovare nuove risposte ai bisogni. E’ una sfida che mette in primo piano, finalmente, la progettualità liberata dalla burocrazia quotidiana.
Qual è la preoccupazione maggiore in prospettiva?
Non ci sono risposte circa la funzione dei buoni-servizio e le istanze di co-progettazione di servizio: la pubblica amministrazione è impegnata nella lotta alla diffusione del contagio, dando priorità all’assistenza sanitaria. Siamo in attesa di una risposta. Spero che qualcosa si sblocchi con la task force regionale in cui tutti gli attori del sociale, del sindacato, il forum del Terzo Settore, delle famiglie lavorano alla programmazione per accedere ai fondi. Tra i tanti problemi c’è il rischio di perdere risorse che spettavano al sud, destinate nell’emergenza ad altri scopi. A preoccuparmi sono soprattutto i territori più piccoli, a cui la Regione dovrebbe essere più vicina. Da parte del terzo settore c’è piena disponibilità ma la burocrazia e alcune prassi consolidate andrebbero riviste. Paradossalmente è proprio l’epidemia a portarci nel terzo millennio e, quindi, verso una nuova economia.
Già prima della pandemia si percepiva un clima di cambiamento del’intera organizzazione del terzo settore…
Si sta deviando verso un’eccessiva “sanitarizzazione” dei servizi, che si allontana dalla sanità di prossimità e dall’assistenza sociale. Diventano necessari alcuni requisiti professionali, ma non si possono gettare a mare quindici anni di lavoro, in cui si sono venute a conoscere e ad evolvere diverse forme di disagio e di bisogno e, contemporaneamente, si stava superando il confine tra il “socio” e il “sanitario” che rendeva la persona non solo paziente ma ospite. Si è creata una stratificazione delle strutture, figlia dell’evoluzione sociale che ha portato alla nascita di figure sociali diverse. All’interno delle strutture, infatti, convivono diverse specificità e skills professionali, sviluppatisi con l’evoluzione dei bisogni. I centri diurni e le strutture cosiddette leggere, sono diventati ormai luoghi famigliari per i disabili o per i soggetti con lo spettro autistico che in quell’ambiente hanno trovato una loro dimensione. Creare la megastruttura sanitaria che privilegia i grandi centri può spezzare queste relazioni e tralasciare i bisogni dei territori più periferici.
E’ un periodo in cui la solidarietà e la collaborazione stanno assumendo un ruolo decisivo. Può raccontare qualche storia particolarmente significativa di realtà associative?
Ci sono molte esperienze; stanno emergendo tante progettualità che evidenziano la capacità di fare rete e creare legami di comunità. Si pensi alla tv online, attraverso cui creare nuova socialità. Molte cooperative si stanno adoperando con laboratori a distanza per non spezzare la relazione educativa, oltre alle esperienze di volontariato svolte direttamente nell’emergenza per supportare, per esempio, gli anziani. L’elemento distintivo del terzo settore è l’interesse generale che si persegue con l’attività che si svolge. E’ il valore che si crea sul territorio. Chi lavora in una cooperativa sociale non svolge solo un lavoro ma crea valore, crea relazione che permette di vivere positivamente i diversi disagi. Genera un clima positivo. In qualche modo stiamo recuperando tutto questo, anche se con modalità diverse di relazionarsi. Dopo questa emergenza sanitaria saremo obbligati a guardare in modo diverso l’impegno del terzo settore, alle forme di collaborazione pubblico-privato, a lungo rimaste solo parole. Dobbiamo essere comunità. Stiamo abbandonando la sfrenata corsa all’individualismo, all’opportunismo. Stiamo recuperando, finalmente, le buone pratiche.
Fondamentale, oggi più che mai è il ruolo dell’innovazione, della comunicazione, del digitale. Come si collocano rispetto al terzo settore? Sono un incentivo a comunicare il sociale da parte degli stessi operatori sociali?
La comunicazione degli operatori è fondamentale. Innovazione, per me, significa utilizzare gli strumenti contemporanei per avvicinare le persone alle opportunità e soddisfare il bisogno. La tecnologia e il digitale intervengono efficacemente nella relazione con l’utente. Questi strumenti, in tempi di poche risorse, permettono di continuare ad essere vicino alla persona, facendola sentire importante. Così si superano i confini dell’ente e in questo modo si esternalizza il valore.
Dovrebbe essere un aspetto che le realtà associative e cooperative dovrebbero sfruttare meglio?
Abbiamo difficoltà a raccontarci perché forse ci guardiamo troppo addosso, a causa forse dell’appiattimento burocratico, dei servizi da erogare e tutto questo toglie tempo al racconto. In questo tempo, anche come detto dall’art. 48 del decreto, si esorta a raccontare come stia proseguendo la relazione con l’utente. Non si può interrompere la relazione educativa e questo genera la spinta a raccontarsi. Perciò come mi racconto? I nuovi strumenti della comunicazione rappresentano l’opportunità per raccontarsi meglio e rimarcare l’importanza dell’impegno svolto, per comunicare i contenuti propri e delle relazioni che si creano. Questa è innovazione sociale. Spesso le parole vengono usate come slogan, invece possono essere generatori di fatti e storie.