La famiglia romana? Un vero inferno

Un volume di Eva Cantarella rilegge il rapporto genitori-figli nel mondo classico, svelandone complessità e contraddittorietà assolutamente "moderne"

Chi vuol comprendere il presente non può farlo eludendo la conoscenza del passato, il cui studio ci permette di trarre elementi utili all’apertura di nuovi orizzonti di senso”, si legge nell’introduzione a “Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma ad Oggi”, ultimo lavoro di Eva Cantarella, studiosa di diritto greco e romano di fama internazionale. Il volume, edito da Feltrinelli, è stato presentato a Bari alla libreria Laterza. A moderare l’incontro, Stefania Santelia, docente di Letteratura latina tardoantica presso l’ateneo barese.

“Il saggio prende le mosse da un interrogativo quanto mai attuale: esiste una relazione tra la crisi della famiglia e la modernità? E i conflitti e le tensioni familiari, che spesso causano delitti efferati, sono una prerogativa solo del nostro tempo?”, attacca la prof.ssa Santelia. “La dialettica tra padri e figli non riproduce, in realtà, su scala più ampia, quella tra generazioni diverse? I vecchi e i giovani, da sempre in conflitto tra loro?”, si chiede. La consuetudine, praticata dagli iuvenes romani, di gettare da un ponte gli ultrasessantenni (sexaginta de pontis) pare fare a pugni, d’altra parte, con l’estremo rispetto che la cultura antica ostenta per la saggezza degli anziani. “I vecchi erano ritenuti saggi ed equilibrati -spiega Cantarella- proprio perché, avendo vissuto più cicli rispetto ai giovani, rappresentavano un punto di riferimento ineludibile da cui trarre insegnamento”. La saggezza dei vecchi, in altri termini, rappresenta un contraltare alla voluptas e libidinis giovanile.

“Il rapporto affettivo tra padri e figli nell’antica Roma è decisamente diverso da quello della moderna società industriale e capitalista. Divenuti maggiorenni, infatti, i giovani acquisiscono i diritti di cittadinanza e il loro status giuridico è pressoché equivalente a quello dei padri, in termini di partecipazione alle assemblee e di facoltà legislativo-deliberativa”, chiarisce la studiosa. “L’unico discrimine, semmai, è la mancanza di titolarità in materia di diritto privato circa la trasmissione del patrimonio, riservata -prosegue- solo ai cittadini in condizione di diritto proprio, sui iuris, cioè in caso di morte di un ascendente maschio del nucleo familiare”. La patria potestas, a ragione, implica addirittura il diritto di vita e di morte sui familiari, fra i quali sono comprese le mogli dei figli sposate cum manu, cioè che lasciavano la patria potestas originaria sottoponendosi al marito. All’interno di un quadro così imbarazzante, “la vertenza è risolta mediante una somma di denaro, peculium, elargita dal padre al proprio figlio, sicché quest’ultimo ha la possibilità, sottostando pur sempre al volere del pater familias, di contrarre matrimonio e convivere con sua moglie (affectio maritalis)”, precisa l’autrice.

A dire il vero, molti principi teorici erano superati o ammorbiditi nella prassi. Gli effetti della patria potestas sarebbero stati, in realtà, notevolmente ridotti: considerata la vita media non superiore ai cinquant’anni, i padri erano impossibilitati ad assistere al matrimonio dei propri figli, in genere contratto a trent’anni. “Le fonti letterarie tendono, inoltre, a disegnare un affresco della famiglia romana come luogo di affetti, calore e convivialità, laddove, invece, il quadro è più complesso: la concessione del peculium, ad esempio, non è un atto di evergesia dei padri nei confronti dei propri figli, bensì un alibi dei primi per dedicarsi allo svolgimento dei propri affari, l’otium, delegando le attività economiche a un membro della famiglia che poteva essere tanto un figlio quanto uno schiavo”, spiega Cantarella. Circa, poi, la condizione femminile nell’antichità, “mentre le donne greche sono segregate dal punto di vista intellettuale, non ricevendo un’educazione, e sociale, a causa della relegazione nel gineceo, e loro unica funzione è provvedere alla procreazione e alla difesa della prole, le donne romane, pur partendo anch’esse inizialmente da una condizione sociale di emarginazione, progressivamente si emancipano, conquistando quasi la parità coi loro mariti in termini di diritti privati”, conclude la studiosa.

Il volume può essere letto, dunque, come un invito ad accomiatarsi dal pregiudizio secondo cui l’emancipazione delle donne equivale a corruzione, dissolutezza, rifiuto di assumere la responsabilità della maternità, oltre che come monito alle nuove generazioni a non smarrire il valore di quella grande rivoluzione culturale, culminata negli anni Sessanta, che è stata il femminismo, tutt’altro che banale scimmiottamento degli uomini. La strada da percorrere, è certo, ancora lunga. Il fatto che nel 2013 la parola “potestà” sia stata sostituita da “responsabilità genitoriale” rappresenta, tuttavia, un notevole passo in avanti, nella direzione di una maggiore autonomia delle donne.