Un’intelligenza sociale è ciò che serve al futuro del lavoro

Ad inizio anno, con l'elenco degli infortuni mortali che continua ad allungarsi, una riflessione sul ruolo che l'innovazione tecnologica deve svolgere nella prevenzione

Ogni nuovo anno arriva e ogni nuovo anno facciamo i conti dei morti sul lavoro nel corso dell’anno precedente, quand’anche stime su ciò che potrà accadere nel prossimo futuro. I risultati e le stime variano, evidentemente, di anno in anno, talora in meglio, talora in peggio, ma la sostanza delle cose cambia poco: si muore di lavoro, si muore troppo.

In Italia sono mille le morti sul lavoro ogni anno

Nel nostro Paese, tre morti al giorno, mille l’anno – e non è certo un numero irrilevante – ma i dati annuali a livello mondiale sono impressionanti: due milioni e trecentomila. Numeri da guerra. A questa guerra è dedicato il libro Insicuri da morire, realizzato e pubblicato dall’Associazione Società INformazione (2022), in occasione dei vent’anni del Rapporto sui diritti globali, curato dalla stessa associazione.

Errori umani ce ne sono e, con ogni probabilità, non potrà essere altrimenti; tuttavia si alternano e si mischiano a realtà lavorative precarie, insicure, che non tengono in gran conto – come dovrebbero – che la vita umana non ha prezzo, che non può essere una moneta da pagare alla corte del re mercato. Il luogo di lavoro deve essere spazio di vita, non certo luogo di morte. Non in pochi casi, poi, al danno s’unisce la beffa, giacché le imprese tendono a sfuggire alle loro effettive responsabilità.

L’impresa irresponsabile

Vent’anni fa, Luciano Gallino ha osservato come stessimo vivendo nell’epoca dell’impresa irresponsabile. L’espressione mi sembra tuttora valida ed efficace, giacché nulla di fondo è cambiato rispetto a una elementare considerazione: i modelli d’impresa che sperimentiamo, pur tra le diversità e gli indubbi passi avanti sotto il profilo dell’etica e della responsabilità sociale, sono naturalmente concentrati sulla tenuta sul fronte dei mercati, sulla massimizzazione dei profitti, sulle ripercussioni di valore in borsa. Considerazione che porta a dire che le imprese, altrettanto naturalmente, sono portate a trascurare le conseguenze delle proprie decisioni sulla qualità della vita delle persone.

Diventa allora comprensibile, ma non certo giustificabile, che la sicurezza sui luoghi di lavoro non venga sentita come un preciso dovere sociale, ma come un fastidioso intralcio all’azione, oltre che una voce negativa in bilancio. Non è un problema di singola impresa, pure importante; è un problema di sistema. E’ il sistema che, sotto questo profilo, fa acqua da tutte le parti. E’ il sistema che non regge più. E’ il sistema che dovremmo cambiare.

Il fenomeno delle morti sul lavoro altera la coscienza perché rappresenta una delle più evidenti spie tragicamente accese sul malessere diffuso nella nostra società; percepiamo nettamente che non si tratta di una mera natalità, ma di una ingiustizia bella e buona, che, come tale, non è facile da digerire, anche perché altrettanto netta è la sensazione che molto si potrebbe fare, se non per superarla completamente, quanto meno per eliminarne gli effetti più emblematici e drammatici. Non contiamo ogni anno soltanto mille nuovi decessi – fenomeno di per sé inaccettabile – ma anche moltissimi casi di vittime sul lavoro che restano colpite nel fisico a seguito di infortuni o minati da malattie professionali. Invalidità che cambiano per sempre la vita di tante persone. Di migliaia e migliaia di persone ogni anno.

Siamo una repubblica fondata sul lavoro e ci troviamo da tempo, da troppo tempo, costretti ad affrontare, anno dopo anno, una situazione in cui troppo spesso il lavoro, anziché fattore di inclusione, di appartenenza, di benessere, di autorealizzazione, si presenta e afferma nella sua veste più inquietante, come causa d’indicibili sofferenze per i lavoratori, per le loro famiglie e per la collettività tutta.

L’innovazione tecnologica deve migliorare le condizioni di lavoro

L’innovazione tecnologica, la robotica e, soprattuttto, l’intelligenza artificiale (IA) potranno aiutarci a migliorare le condizioni e la sicurezza sui posti di lavoro e, se non ad azzerare del tutto, quanto meno a ridurre sensibilmente un tale scempio? La risposta, se risposta definitiva c’è, implica tuttavia un ragionamento a monte su quanto potrà presto accadere, e in parte già accade, nel mondo del lavoro, giacché stiamo assistendo a una vera rivoluzione, che vede gli esseri umani competere con le macchine, in una partita dagli incerti risultati.

Due fronti sono scesi in campo (Yuval Noah Harari). Sul fronte degli integrati si sostiene che invece di competere con l’IA, gli umani dovrebbero metterne completamente a frutto le potenzialità. Per esempio, la sostituzione dei piloti con i droni ha eliminato alcuni posti di lavoro, ma ha creato diverse nuove opportunità. Posti di lavoro si perdono, altri però ne nascono. Il mercato del lavoro, diciamo, del 2050 (una generazione, probabilmente molto prima) potrebbe, dunque, essere caratterizzato da una stretta cooperazione uomo-IA, anziché da una situazione conflittuale.

Gli apocalittici, dal canto loro, osservano che tutte le nuove professioni esigono competenze di livello elevato e dunque nel 2050 chi perde il posto in un lavoro poco qualificato, perché sostituito da un robot, difficilmente sarà in grado di trovare una nuova occupazione nelle professioni del futuro, giacché non sarà in possesso delle necessarie competenze. In questo caso, si avrebbe una doppia impasse: da un lato, la disoccupazione data dall’automazione spinta, e dall’altro, la mancanza di lavoratori qualificati. Inoltre, osservano gli apocalittici, nessuna professione sarà mai al riparo dalle future minacce, poiché il learning machine, la capacità di apprendere delle macchine, e la robotica continueranno, senza sosta, a progredire.

Il rischio incombente di una classe di indivisui inutili

Se hanno ragione gli apocalittici, ne consegue che presto potremmo assistere alla nascita di quella che Harari ha chiamato classe degli individui inutili. Harari osserva che se anche potessimo continuare a creare nuovi posti di lavoro – tanti quanti se ne perdono, il che appare assai improbabile – e, nel contempo, a riqualificare continuamente la forza lavoro, gli esseri umani difficilmente riusciranno ad avere la resistenza emotiva necessaria per una vita costellata di mutamenti repentini senza fine. Se così sarà, avremo bisogno di strumenti sempre più sofisticati per ridurre gli effetti di una straordinaria ondata di stress. E la classe degli individui inutili potrebbe aumentare proprio a causa di questa insufficiente resistenza mentale al persistente cambiamento.

Comunque sia, c’è una questione di fondo emersa in modo evidente in questi ultimi anni. Gli esseri umani hanno da sempre due tipi di abilità: le abilità fisiche e quelle cognitive. In passato le macchine erano in competizione con noi soprattutto nelle abilità puramente fisiche, mentre noi mantenevamo un indubbio vantaggio nel caso delle facoltà cognitive. Pertanto, quando i lavori manuali nel settore agricolo e in quello industriale sono stati automatizzati, nel settore dei servizi sono emersi nuovi lavori che richiedevano quel tipo di abilità cognitive che soltanto gli esseri umani possedevano: capacità di apprendimento e di analisi, competenze comunicative, comprensione delle dinamiche emotive, empatia. Cosa sta succedendo oggi?

Sta succedendo che l’IA sta, per così dire, invadendo il campo da sempre territorio degli esseri umani, comincia a superare le prestazioni umane in un numero crescente di competenze e attività, inclusa la comprensione delle dinamiche emotive. Ad esempio, nei sistemi di apprendimento e di tutoraggio intelligente, nel settore della pianificazione e gestione finanziaria, nelle analisi di dati complessi applicati ai sistemi di cura e all’elaborazione di diagnosi e trattamenti sanitari, nelle simulazioni di combattimento aereo, nella creazione a richiesta di testi originali a partire da una quantità massiva di dati.

Se le macchine imparano a ragionare, la valutazione etica del loro lavoro resta comunque all’uomo

D’altro canto, come ci spiegano i ricercatori all’avanguardia sul rapporto uomo-macchina (Riccardo Giraldi, direttore UX di Gemini-Google) l’intelligenza artificiale sta imparando a ragionare. Non si limita più a rispondere in modo veloce in una chat, ma si ferma, riflette, analizza e capisce il contesto, ed è dunque in grado di correggersi. Così facendo, è in grado di restituire la risposta più adatta a chi ha di fronte, proprio come facciamo noi.

Inoltre, nel corso degli ultimi decenni la ricerca in aree come le neuroscienze e l’economia comportamentale ha permesso agli scienziati di hackerare gli esseri umani, in particolare di comprendere in modo molto preciso le modalità con le quali noi prendiamo le decisioni, e di farne tesoro a vantaggio delle macchine. Quindi, se parliamo di occupazione, la minaccia di perdita di posti di lavoro non proviene unicamente dall’ascesa delle tecnologie informatiche, giacché, in realtà, è il risultato dell’azione di ricerca di quest’ultime combinata con i progressi della ricerca nell’ambito delle neuroscienze e dell’economia comportamentale. Rimane ancora aperto lo spazio dell’etica, per antonomasia territorio riservato agli uomini.

Ora, è pur vero che non possiamo (ancora) contare sulle macchine per determinare gli standard etici rilevanti, dovremmo per il momento continuare a farlo noi; tuttavia, una volta stabllito, ad esempio, lo standard etico del mercato del lavoro, che prevede di non discriminare, per dire, tra persone di colore o di sesso, possiamo contare sul fatto che le macchine applicheranno lo standard alla lettera, molto meglio di noi. Anche perché, al contrario delle macchine, noi siamo dotati di subconscio, che spesso agisce contro lo stesso nostro pensiero razionale; e perché – almeno per il momento – le macchine non provano emozioni, anche se su questo delicato aspetto si sta lavorando. Si aprono, dunque, scenari di tutto rispetto e le rappresentazioni da proporre potrebbero essere le più diverse.

L’IA obbedisce al proprio padrone

L’IA ci spaventa perché non ci fidiamo del fatto che sia sempre obbediente (a un dato momento potrebbe addirittura prendere il sopravvento), quando probabilmente il vero problema con i robot è esattamente l’opposto: dovremmo temerli perché obbediranno sempre ai loro padroni e non si ribelleranno mai (forse). In tempo di pace e in tempo di guerra. Il vero problema con i robot non è la loro intelligenza artificiale, quanto lo spirito e il comportamento di chi li guida, l’interesse e il tornaconto politico e personale di chi li programma, quand’anche la loro possibile stupidità e crudeltà.

D’altro canto ancora – e questo è forse uno dei risvolti più emblematici e forse piu inquietanti – l’IA possiede due capacità particolarmente importanti e qualitativamente diverse dalle nostre: la connettività e una straordinaria capacità di aggiornamento. Poiché gli esseri umani sono individui, è difficile connetterli l’uno all’altro e assicurarsi che siano tutti contemporaneamente aggiornati. Le macchine, al contrario, è facile integrarle in una singola rete flessibile, che contestualmente connette tutti e aggiorna tutti, appunto. Pertanto, piuttosto che pensare alla sostituzione di milioni di individui con milioni di macchine, è più verosimile supporre che, nel caso, verremmo rimpiazzati da poche grandi reti integrate.

L’innovazione tecnologica deve migliorare la qualità del lavoro non eliminarlo 

Venendo alla questione del miglioramento della qualità della vita lavorativa, sotto il profilo della sicurezza e del benessere psi-fisico, è singolare – come taluni correttamente osservano (Giorgio Metta, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia) – che, nonostante attualmente le probabilità che si perda la vita lavorando, piuttosto che a causa di un reato violento, siano maggiori, non sembra esserci la necessaria attenzione per introdurre tecnologie dedicate ad aumentare la sicurezza sul lavoro, rispetto all’attenzione posta, invece, alle tecnologie volte a contenere il crimine. Su questo aspetto, credo che non poco pesino anche ragioni legate all’idea di pericolosità sociale, che tuttavia andrebbe rivista proprio alla luce delle grandi trasformazioni in atto. Un’idea che ha giustificato per un grande lasso di tempo la prassi di ritenere socialmente pericoloso chi ruba una mela, rispetto, invece, a un colletto bianco che ha commesso – secondo quella idea – un reato socialmente (più) accettabile. E non è quindi un caso che le patrie galere siano per lo più abitate da persone che hanno rubato una mela, appunto.

Sia come sia, la domanda rimane: stiamo facendo tutto il possibile per azzerare o limitare al massimo il fatto che ancora tantissime persone perdono la vita nei luoghi di lavoro? Ebbene, a quanto sembra, indubbiamente molto c’è ancora da fare, ma non siamo stati del tutto fermi, quanto meno a livello di sperimentazione e messa a punto di prototipi. Così si sta lavorando (Riccardo Giraldi) per la costruzione di robot umanoidi collaborativi nel settore manifatturiero e in quello ospedialiero, di esoscheletri indossabili per il sollevamento ripetitivo di carichi pesanti e di esoscheletri collaborativi per ridurre drasticamente l’affaticamento dei lavoratori, di robot metà umanoidi e metà animaloidi in grado di interagire con infrastrutture progettate per gli esseri umani e in grado di affiancare gli esseri umani in attività rischiose diminuendo di fatto la possibilità di incidenti.

Insomma: due sono le strade che si stanno seguendo, in Italia come nel resto del mondo. Nella prima, la ricerca e l’innovazione tecnologica portano inevitabilmente alla sostituzione dei lavoratori con le macchine; nella seconda, la ricerca e l’innovazione tecnologica sono centrate sulla sicurezza e sulla riduzione degli sforzi dei lavoratori, aprendo peraltro nuove opportunità di sviluppo professionale. Le due strade talvolta s‘incrociano e giocano una stessa partita, ma i loro due obiettivi rimangono precisi e diversi. E’ superfluo osservare che la prima strada è tutta in discesa, mentre la seconda tutta in salita, e non è soltanto una questione di investimenti, di denaro, che pure esiste, giacché la prima strada porta vantaggi diretti e a più stretto giro per le imprese, mentre la seconda risponde a logiche diverse e i cui vantaggi per le imprese sono relativi perché ad assorbire gli effetti esiziali della mancata prevenzione entra in partita il pubblico.

Il rischio che deriva dalla facilità con cui gestire i robot anzichè le persone

Non è una questione soltanto di denaro, come si diceva, perché da tempo sta girando un’idea, che sarebbe forse meglio battezzare come una vera e propria ideologia nel senso più angusto del termine, che porta a sostenere che sarà benedetta l’era nella quale potremo finalmente assistere all’avvento di organizzazioni dove gli esseri umani siano ridotti, in termini numerici, ma non solo, all’osso. Perché, banalmente, è più facile, molto piu agevole, gestire robot, piuttosto che persone. Gli esseri umani, noi, siamo da un lato il vero valore aggiunto di un’organizzazione – come non ci si stanca di ripetere – glissando sull’altro, che ci vede come il fattore più critico. Più delicato. Più impegnativo. Noi non siamo robot, però, che grande scoperta… E invece di gioire per questo, taluni se ne rammaricano, e molto, e aspettano il mondo che verrà, auspicando in silenzio o, letteralmente, la nostra sostituzione o, male che vada, il nostro asservimento alle macchine.

E dunque, innovazioni mirate alla sicurezza e alla prevenzione, che dovrebbero entrare dalla porta principale e a testa alta nel palazzo del lavoro e diffondersi su larga scala, entrano dalla porta di servizio a testa china e fanno fatica a trovare il loro giusto posto in quel palazzo. Cos’è che rema contro? Certo, il processo di trasferimento delle tecnologie dai centri di ricerca alle imprese è particolarmente lungo e complesso e occorrono forti investimenti. Tale evidenza, tuttavia, non può costituire una giustificazione per ritardare oltre misura la presa d’atto che questa è la strada da percorrere – non ve ne sono altre altrettanto efficaci, a meno di non minare dalle fondamenta l’attuale sistema economico e tecnologico – per intervenire con determinazione sulla prevenzione. Non è più tempo d’aspettare o di ritardare un processo che dovrebbe costituire un atto doveroso in un mondo che crede nella religione del progresso e che ama definirsi democratico e civile.

Le tre strade da percorrere per proteggere le persone e il lavoro che svolgono 

Ci aspettano dunque compiti gravosi quanto necessari, se ci sta a cuore il futuro dell’umanità, il futuro di tutti noi. Dato per acquisito che, nonostante tutta la nostra buona volontà, ci troveremo di fronte a una più o meno consistente perdita di posti di lavoro e che, conseguentemente, ciò che dovrebbe davvero essere protetto sono le persone, non i posti di lavoro (Harari), dovremmo percorrere tre strade, tutt’e tre – più o meno – in salita.

Dovremmo, da un lato: 1) grazie alle tecnologie migliorare le condizioni e la sicurezza per chi avrà la possibilità di mantenere un posto di lavoro e, dall’altro: 2) attrezzarci per fornire a chi rimarrà fuori dal mercato del lavoro i beni e i servizi di base e operare per proteggere il loro status mentale e sociale; nel contempo: 3) riflettere seriamente sulla possibilità di sperimentare nuovi modelli di convivenza per fronteggiare una società nella quale il nostro lavoro, presto, a meno di una qualche improbabile inversione di marcia, non sarà più al centro dell’esistenza.

Abbiamo all’inizio ricordato che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro: per quanto tempo ancora potremo continuare a sostenerlo considerato che stiamo assistendo alla fine del lavoro umano come centro del mondo individuale e collettivo? Scrive Sergio D’Angelo, un amico che ha dedicato al tema del lavoro una poesia in rime sciolte dal titolo: tim ballata rap: Il lavoro essenza della società ora al tramonto. Il lavoro che ha assegnato un nome al secolo passato/Il lavoro che ha creato legami e identità. Il lavoro di oggi senza compagni/Il tempo di lavoro: per pochi sempre di piu, per molti chissà se mai verrà.

Almeno per il momento, questo ci sembra sembra essere il quadro di riferimento, ma la velocità dei progressi è febbrile quanto, oramai, per non pochi aspetti, fuori controllo. In questo senso, non è superfluo tenere a mente il monito del filosofo Giìnther Anders, che da più di cinquant’anni ci invita a prestare la massima attenzione: “Affinchè il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi”. Se non saremo più noi ì protagonisti del cambiamento del mondo, il risultato sarà, presto o tardi, un mondo dove noi non conteremo più o, peggio, non ci saremo proprio più.

Le immagini sono tratte dal film “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin