Lo scandalo utile di Venere in pelliccia

Lo spettacolo dei Baroni Rampanti, in scena al vivaio di Sensorya a Palo del Colle, riscopre l'assoluta novità e modernità del libro di von Sacher-Masoch a cui si ispira

Era il 1870 quando, all’interno di un volume intitolato L’eredità di Caino, uscì un racconto che, ancora oggi, non manca di sconvolgere e far riflettere i lettori, e al cui autore si deve la nascita del termine “masochismo”. Il testo in questione, che oggi viene pubblicato in un volume a parte, è Venere in pelliccia e il suo ideatore è lo scrittore austriaco Leopold von Sacher-Masoch, da sempre associato ad un altro scrittore di romanzi e opere teatrali erotiche, dal nome più celebre, il Marchese de Sade, dalla cui opera più famosa, Le 120 giornate di Sodoma, ricavò il suo ultimo lungometraggio Pier Paolo Pasolini.

All’interno del bellissimo vivaio di Sensorya, a Palo del Colle, è stata portata in scena una versione assai interessante del libro, realizzata dal duo dei Baroni Rampanti, compagnia teatrale milanese, composta da Manila Barbati e Martino Palmisano e diretta dalla bravissima Emanuela Bonetti. Gli attori, noti sulla scena nazionale e non solo lombarda, hanno interpretato una Venere in pelliccia a metà tra il romanzo e la pièce di David Ives, da cui è tratto il celebre film di Roman Polansky – nelle sale nel 2013 e interpretato da due attori iconici come Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric – facendo rivivere uno dei capolavori più noti della letteratura erotica e realizzando un lavoro eccezionale, senza tralasciare la complessità di un’opera variegata quanto sottile. 

Quando si parla di letteratura erotica, si commette l’errore di associarla alla pornografia, seppure l’una non c’entri nulla con l’altra. Fortunatamente l’etimologia ci viene incontro. Innanzitutto, se l’erotismo è un’arte, e precisamente un omaggio e un elogio all’eros, all’amore fisico, carnale; il porno, invece, è un prodotto di consumo (infatti, deriva da greco pornein, “vendere”), che ha come obiettivo quello di aggiogare lo spettatore, di certo non quello di farlo ragionare sulla società. Il romanzo erotico è una sorta di lente di ingrandimento che viene offerta al lettore o a chi guarda, specie se parliamo di film o dipinti, perché possa comprendere meglio le stranezze e le ipocrisie, nonché le peculiarità, dell’epoca in cui vive. Svela il vero volto di una società, di una classe sociale, soprattutto di quella borghese, e i sordidi meccanismi che si nascondono dietro ad ogni rapporto umano, specie quello amoroso.

Considerate, quindi, due aristocratici, nell’Europa di fine Ottocento. Sono giovani, sono ricchi, sono annoiati e ricercano – in un periodo in cui era più che viva la passione verso tutto ciò che è pagano ed ellenico – il piacere. Vogliono a tutti i costi ignorare i dettami della propria epoca, che impone il matrimonio, la morigeratezza, il lavoro, la ricchezza e tutto ciò che possa attirare la stima e il consenso dei contemporanei. E Sacher-Masoch, da raffinato scrittore e osservatore della realtà qual era, ha perfettamente inteso che, per quanto uno cerchi disperatamente di sfuggire ai condizionamenti della società, non può, non ci riesce. Ne rimane incagliato, intrappolato. Perciò, essendo lui in primis reduce da un matrimonio infelice e sentendosi “perverso”, solo ed escluso dalla società, decide di raccontare la sua storia all’interno della Venere in pelliccia, inserendovi una critica spietata nei confronti della propria classe sociale e nei confronti del massimo esempio di virtù, il matrimonio. Intuisce che in ogni rapporto amoroso c’è sempre chi ha potere e chi non ce l’ha. 

Già Baudelaire aveva intuito che ogni relazione, specie quella amorosa, sia caratterizzata da una sproporzione insanabile. Lo scrive circa dieci anni prima dell’uscita del romanzo austriaco nel Mio cuore messo a nudo, opera meno nota, costituita da aforismi più o meno lunghi. In ogni rapporto – scriveva – non vi è mai parità, ma ci sono sempre un boia e una vittima, un padrone e uno schiavo. A rendere l’uno uno schiavo e l’altro il padrone è il possesso del potere. Potremmo, quindi, dedurre che sia sempre il padrone a detenere tale potere, ma non è così. Infatti, Hegel aveva capito che spesso è proprio lo schiavo, è proprio la vittima ad avere il controllo e il padrone a dipendere dal suo servo. 

Il rapporto masochistico prevede, infatti, un padrone e uno schiavo. Il padrone fustiga e sevizia lo schiavo e quest’ultimo subisce le sue torture. È però il servo, lo schiavo a trarre piacere; è quest’ultimo a dettare legge e a trarre da tale sottomissione, che è solo formale, un piacere appunto masochistico. Nel romanzo dello scrittore austriaco, quindi, il potere non è nelle mani della donna, chiamata Vanda, ma di Severin, il protagonista nonché suo schiavo. L’epigrafe, con cui si apriva il romanzo e su cui nella messa in scena si è molto riflettuto, è tratta dalla bibbia e recita “e Dio lo punì, mettendolo nelle mani di una donna”, facendo credere che l’uomo sia una semplice vittima dei capricci e della crudeltà femminile. Lo stesso romanzo pare di primo acchito essere una fiaba perversa, in cui l’uomo, dopo aver patito sofferenze e umiliazioni, riesce a conquistare la donna e a guarire dal suo masochismo, dalla sua passione per le pellicce e la tortura.

In verità, non è così – e i Baroni Rampanti l’hanno ben capito – perché è proprio quel Severin a dettare legge, a costringere la donna ad essere una dominatrice. È lui a decidere, ad esercitare un potere su di lei. L’intuizione di Sacher-Masoch, il cui libro fece scandalo all’epoca, è incredibile. Lo stesso contratto, scritto dalla donna e firmato dall’uomo, è solo una pura formalità, un capriccio burocratico, che non fa altro che confermare la disparità. Il potere non è mai stato di chi detiene la frusta o la verga di betulle, oppure in chi indossa la pelliccia. Ma nel servo, nella vittima, perché è quest’ultima ad imporre al suo femmineo carnefice quello che desidera.

Lo spettacolo è frutto di uno studio incredibile sul testo compiuto dalla compagnia. È stata studiata a fondo l’opera di Masoch, rintracciandone, proprio come aveva fatto Polansky, gli elementi di assoluta novità e modernità. Le sole due critiche che si possono muovere riguardavano la scena, troppo densa di elementi e oggetti, che impedivano agli attori di muoversi liberamente sul palco e, inoltre, di essere andati troppo per le lunghe all’inizio, invece di tagliare qualche dialogo e sketch, ed entrare nel vivo dell’azione. I troppi convenevoli iniziali hanno rischiato di far calare la tensione drammatica della pièce, che si erge sulla bravura incondizionata di Manila Barbati, una Vanda perfetta. Possiamo solo augurarci che i Baroni Rampanti tornino presto in Puglia per deliziare ancora il pubblico, ispirarlo e, soprattutto, fargli conoscere altre opere complesse e variegate, senza temere di spaventare gli spettatori con dialoghi ambivalenti e colti, o peggio di sconvolgerli. Anche se forse avremmo bisogno di scandalo, soprattutto se è di qualità.

Nelle foto, la coppia Manila Barbati – Martino Palmisano, protagonisti dello spettacolo “Venere in pelliccia”