Come viandanti oltre la “rete”

Quando la vita è ormai un flusso ininterrotto di comunicazioni, occorre rivendicare il diritto alla disconnessione per riflettere e ritrovare le ragioni del nostro io

Il tempo scorre inesorabile in quest’anno così singolare e, man mano che l’epidemia si espande, mutano decisioni e restrizioni che portano a radicali cambiamenti nello stile di vita di ognuno. In particolare, a causa del lockdown, sono milioni i cittadini che hanno dovuto adattarsi a nuovi modi di lavorare, fondati sullo smart working.

Ma cosa s’intende esattamente per lavoro agile? Secondo il ministero del lavoro e delle politiche sociali, si tratta di un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi della vita privata con quelli del lavoro e, al contempo, a favorire la crescita della sua produttività. Se ne deduce una revisione del modello di leadership e dell’organizzazione che rafforza il concetto di collaborazione, favorendo la condivisione di nuovi spazi.

 Ce lo spiega bene Giordana, 29 anni, impiegata presso un ufficio pubblico, che nel corso di un’intervista telefonica ha affermato: “Ho vissuto molto bene lo smart working in modalità mista, perché considerando che sono pendolare, mi faceva comodo restare qualche giorno a casa. Quando è diventato a tempo pieno, è stato diverso. Secondo me, il lavoro da casa presenta vantaggi e svantaggi, dipende molto da come viene gestito e organizzato. Permette di restare comodi, di scegliere gli orari in cui lavorare e questo porta ad un aumento della produttività. Molto spesso però, si rischia di superare l’orario canonico, perché scatta una sorta di ansia da prestazione ed è come se non si staccasse mai.”

Sappiamo bene, però, quanto la relazione di contatto sia difficilmente sostituibile da social, app per messaggistica, videoconferenze o riunioni online. L’esperienza si riduce ad una mera relazione di lavoro, senza quella componente soggettiva che contraddistingue ogni relazione umana. Uno dei rischi più rilevanti per chi lavora da casa è quello della solitudine sociale ma anche professionale. L’isolamento dello smart worker non è solo un intralcio tecnico per l’organizzazione del lavoro, ma determina indiscutibilmente, effetti negativi sul benessere psico-fisico dell’individuo.

Un possibile riflesso di questo nuovo approccio al lavoro è il burnout, parola di origine anglosassone che letteralmente significa “surriscaldamento”. Si tratta di un vero e proprio logorio con conseguenze che interessano il funzionamento globale dell’organismo e le sue diverse componenti: alterazioni negative cognitive ed emotive come paura, rabbia, colpa, tristezza, ansia, sentimenti di distacco verso gli altri; disfunzioni comportamentali con manifestazioni di aggressività verbale o fisica, abuso di alcool e sostanze, assenteismo, insonnia e sintomi somatici, quali cefalea, disturbi cardiovascolari e respiratori, disfunzioni sessuali, astenia, disturbi intestinali.

Il lavoro da remoto ci ha costretto a ridefinire l’equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero. Risulta fondamentale dunque, ritrovare un contatto con se stessi per imparare ad ascoltarsi e a “ripensare” emozioni, ansie, paure. Le conseguenze di questa nuova modalità, ci invitano a riflettere sullo sviluppo delle identità lavorativo-professionali nelle dimensioni personale, sociale e comunitaria. Le interazioni con altri membri dell’organizzazione sempre più indirette e formali, riducono le occasioni di incontro face to face, fondamentali per lo sviluppo di emozioni, valori e relazioni intime o fiduciarie.

“Vengono sicuramente meno i piccoli momenti di socializzazione e svago che alleggeriscono e rendono piacevole anche una giornata lavorativa. Si amplifica il senso di solitudine sia professionale che umana. Questa modalità inibisce, in qualche modo, la ricerca di contatto e mi induce a lavorare e trovare soluzioni in autonomia. Per quanto riguarda i comportamenti, frequenti sono le distrazioni durante le call di gruppo e il fatto di vivere l’intera giornata tra le stesse mura mi porta a essere mediamente più nervoso, scocciato, svogliato. Mi capita poi, a fine lavoro, di non aver voglia di uscire di casa, anche quando si potrebbe.” E’ quanto sostiene Nicola, 33 anni, ingegnere in azienda metalmeccanica, durante una seconda intervista.

L’individuo rischia di essere risucchiato dalla rete o di trovarsi in situazioni in cui sembra essere costretto a scegliere tra lavoro, famiglia ed amici. Per questo, è utile ricordare che il diritto alla disconnessione risulta di difficile tutela se vengono a mancare regole, limiti e confini, fisici e temporali, entro cui si esercita la prestazione lavorativa. Ora più che mai è necessario utilizzare le risorse in maniera intelligente e innovativa, rinforzando anche la rete psicologica pubblica nel servizio sanitario nazionale. Interventi mirati alla prevenzione, alle cure e al sostegno (anche a domicilio o a distanza) devono essere la via regia per gli investimenti della sanità di oggi e di domani.

Orbene, proprio come nell’eroico isolamento del Viandante sul mare di nebbia, sopra riportato, non esiste momento migliore, forse, per perdersi nel mare nebbioso della vita in un atteggiamento contemplativo di estrema esperienza interiore. Indagare la propria anima, per sperimentarne la nudità e il senso di imperfezione che ci rende sublimi e al tempo stesso umani, specialmente di fronte alla grandiosità e imprevedibilità della natura.

In alto, “Viandante sul mare di nebbia” dipinto di Caspar David Friedrich