Più che briganti “poveri” italioti

E' un'intrigante metafora del Paese, lo spettacolo, ricco di ironia ma anche di amarezza, in scena al Traetta di Bitonto con Mimmo Mancini e Paolo De Vita

Esistono temi fortunati e cari alla storiografia e altri negletti. Altri ancora vivono fasi alterne, ora di successo ora meno. Da registrare, poi, argomenti studiati e specificità approfondite ma talvolta a seconda di indirizzi culturali e politici ben precisi oppure di stagioni particolarmente interessate ad offrire di un determinato aspetto una visione piuttosto che un’altra, cambiando così radicalmente versioni alla lettura della storia (e, dunque, alla storia stessa) da disancorarsi dai canali corretti della ricerca fino ad approdare sui dubbi lidi della leggenda.

È quel che è successo, e forse succede ancora, col vasto tema del “brigantaggio storico” al Sud, in particolar modo con quello postunitario, riferito cioè al periodo successivo al conseguimento (non di rado violento e coercitivo) dell’unificazione territoriale attraverso l’estensione del dominio dei Savoia nelle terre del Regno che era stato Borbone. Un argomento, questo, negli ultimi anni assai coltivato e seguito a livello editoriale, anche in virtù di un approssimarsi al fenomeno in chiave positiva o comunque giustificante. Quel che prima non accadeva, eccezion fatta per alcuni pionieristici studi.

Si pensi al fondamentale lavoro svolto da Franco Molfese, storico e parlamentare del Pci, negli anni ’70 per Feltrinelli, nel solco della spiegazione già gramsciana del fenomeno. Molfese non giustificava e non aveva bisogno di farlo: si limitava a spiegare, con piene garanzie scientifiche, il contesto. Oppure agli studi, in ben altra area ideologica, condotti da Carlo Alianello.

Ora, grazie agli attori Mimmo Mancini e Paolo De Vita e all’accorta regia di Marcello Cotugno, il brigantaggio è sbarcato a teatro. Un lavoro che, in prima nazionale, è stato portato in scena a Bitonto, al teatro Traetta, nell’ultimo fine settimana. “Non chiamateli briganti” il provocatorio titolo dello spettacolo, che già tanto dice quanto a ricezione del termine come stigma, giacché, nell’accezione, la parola “brigante” un significato positivo, evidentemente, non poteva averlo. E del resto, di briganti da queste parti si parlava già da ben prima, segno che certe realtà disagiate venivano da lontano, in una terra che era difficile, nonostante lo splendore in decadenza di una capitale, Napoli, che sempre grazie alla dinastia ormai ai suoi ultimi giorni era però stata grande.
Esisteva già prima di Garibaldi, dunque, il brigantaggio al Sud; ne sarebbe esistito uno più forte e dalle mille sfaccettature (sociale da una parte e legittimista dall’altro) dopo. Il lavoro teatrale si è sforzato di delineare questi diversi passaggi, coi Borbone che dapprima combattono i briganti e poi se ne servono in chiave revanscista. Ma raccontata è anche la disillusione garibaldina con al centro la questione della “terra”. Passaggi che chi scrive, assieme allo storico Valentino Romano (ma da questi preceduto in qualità e valore di impegno, data l’esperienza decennale di Romano su queste tematiche), ha contribuito a collocare adeguatamente nell’ambito del testo.
Un lavoro che il pubblico ha gradito con grande partecipazione, vuoi anche per la possibilità da parte di Mimmo Mancini di giocare “in casa”. Brillantissimi i due protagonisti: severo e rigoroso nell’ironia Mimmo, istrionico e poi furbo negli effetti del mimetismo politico più conveniente, De Vita. Sono i due fratelli Capitoni, già in scena in più lavori negli anni scorsi. Nei panni, ora, di un contadino e di un pastore, diventati fuorilegge e poi briganti per necessità e per ingiustizia subita. Ma con molte sorprese.
Tornando alla storia, decisamente un’esperienza interessante quella di unire il dato di ricerca storiografica alle necessità precise di una narrazione teatrale. Personalmente, una felice e interessante opportunità. Un’opera, dunque, utile a percepire e toccare con mano le ragioni antropologiche, sociali e sociologiche di ciò che agita la grande storia nelle retrovie della storia stessa e delle esistenze. Un lavoro senza pretese di riscrittura delle vicende o di adesione ad alcuno dei filoni storici o ideologici, di esaltazione o critica che sia rispetto ai fatti.

Si è preferito piuttosto, con l’espediente del sorriso, focalizzarsi sulla sofferenza degli uomini che vissero quel tempo, degli uomini meridionali (senza inutili scontri Nord-Sud), non senza un poco velato gusto retroamaro rispetto alle debolezze ataviche di un certo modo di ragionare, quello sì, come la storia dice, “italiano”. Il testo in pratica ci fa capire quanto c’era da lavorare di più e meglio per farli, questi “italiani”: colpe e vizi d’origine che scontiamo ancora oggi.

Interessante anche la ricerca musicale, a cura del regista Cotugno: musica espressiva, non pedissequamente filologica, tributaria delle registrazioni orali salentine di Diego Capitelli e Alan Lomax. Scenografia di Sara Palmieri, luci di Fabio Fornelli e costumi di Noemi Intino.

Foto di Massimiliano Robles