È incredibile constatare, ogni volta che ci si imbatte in una notizia originale su qualche scrittore, come gli storici e gli studiosi – crudeli amministratori dell’informazione – abbiano deliberatamente nascosto episodi tanto “gustosi” ai poveri studenti e lettori. I quali, naturalmente, continuano a brancolare nel buio, senza il conforto di dettagli originali che potrebbero mutare radicalmente lo studio e la lettura di quei libri colossali e monumentali (specialmente per le dimensioni), che da sempre atterriscono e intimoriscono.
E un tale danno viene perpetrato per quel testardo tentativo di preservare a tutti i costi l’aura di santità che attornia gli idoli e le grandi menti che hanno mutato considerevolmente, se non radicalmente, la nostra esistenza. Eventi – in fin dei conti – piccoli, che da soli valgono poca cosa, ma che opportunamente inseriti nel contesto giusto, provocano sconcerto e riflessione.
Come, per esempio, venire a sapere che Alexandre Dumas, l’autore dei Tre Moschettieri, fosse di origini nere (la nonna era stata una schiava di Haiti), in quell’ambiente razzista dell’Ottocento. Oppure che Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi di Kafka, non si trasformi in uno scarafaggio, ma in un coleottero! E questa è una scoperta di Vladimir Nabokov. Ma una tale ghiottoneria non potrà non essere approfondita più in là. Per ora limitiamoci ad un evento singolarissimo su Gustave Flaubert, quell’intrattabile e un tantino borioso scrittore francese, nato insieme a Baudelaire in quell’iconico 1821.
Non a Parigi, ma in una realtà provinciale che grandemente bersaglierà nelle sue opere, e cioè quella di Rouen. Flaubert, in comune con il suo coetaneo, aveva un amore irrefrenabile per l’Oriente. Una passione smodata che condivide con i suoi amici più cari, in particolare con Maxime du Camp. Ed è proprio con questo suo carissimo compagno che affronterà un’avventura straordinaria in Egitto, uno di quei viaggi che mutano radicalmente un uomo. E il lettore non può immaginare fino a che punto.
È bene premettere che Flaubert aveva perso prematuramente la maggior parte dei suoi fratelli e, quando perse anche il padre, si ritrovò a ventotto anni con l’intera eredità e con la possibilità di farne quello che voleva. Perciò, una volta intascata la somma, organizzò questo viaggio, su cui fantasticava sin dall’adolescenza. Lo comunicò alla madre e quest’ultima, dopo aver pianto per giorni e aver pregato il figlio di non partire, alla fine acconsentì. Non che avesse altra scelta. Ma doveva scriverle ogni giorno e Flaubert non se la sentì di negarle quest’unica condizione.
E, così, nell’ottobre del 1849 questi due fanatici dell’oriente giunsero a Marsiglia, si imbarcarono e, dopo una lunga e burrascosa traversata, sbarcarono un mese dopo ad Alessandria. E qui i due amici si scatenarono e visitarono in lungo e in largo l’Egitto, finché il caso non volle che capitassero ad Esna, una cittadina sulla riva occidentale, a pochi chilometri da Luxor.
Decisero di passare la notte in una specie di osteria e seppero che proprio lì vi era una famosissima prostituta: una vera e propria celebrità per chiunque si interessasse di Egitto e leggesse i diari di viaggio dei pochi fortunati viaggiatori, perché – oltre a vantare una straordinaria bravura in faccende immaginabili – era coltissima e parecchio saggia. Il suo nome era Kuchuk Hanem. Allora, presero quel colpo di fortuna per segno del destino.
Questa donna non era affatto bella: aveva un monociglio che le prendeva quasi tutta la fronte, era piuttosto pelosa e dalle forme fin troppo generose. Aveva perfino qualche dente cariato e un alito tremendo. Eppure, il suo fascino era sufficiente a costringere ogni viandante ad una sosta e le sue abilità amorose certamente non avevano fatto pentire nessuno della scelta. Almeno, non immediatamente. Per Flaubert emanava il caldo ed esotico profumo dell’Oriente, tanto che spesso si era trovato a fantasticare su di lei. E tutta quell’immaginazione non deluse le aspettative ma accrebbe la magia di quell’incontro. Passò, racconta in una lettera, una delle più belle notti della sua vita.
Trascorse circa un anno e Gustave decise di tornare a casa: subito scrisse a sua madre che sarebbe presto rientrato in patria. E quest’ultima, così impaziente di rivedere suo figlio, gli propose di incontrarsi a metà strada. Roma fu la meta prescelta, perché così ne avrebbero approfittato per fare visita ad alcuni amici di famiglia.
Naturalmente la madre non poteva aspettarsi quello che sarebbe accaduto lì, in quelle strade tanto gremite e popolate, in quel continuo viavai di carrozze. Possiamo solo immaginare lo spavento e lo strazio della povera donna, quando vide avvicinarsi un uomo così invecchiato, privo della chioma folta che aveva prima di partire e dell’intera arcata dentaria, il pallido riflesso di suo figlio.
Gustave Flaubert, infatti, si era preso la sifilide durante quell’indimenticabile notte con Kuchuk Hanem. E poco ci mancò che svenisse, quella povera donna! Senz’altro fu sconcertante, ma presto si abituò al nuovo aspetto del figlio, seppure i capelli presto crebbero, contrariamente ai denti. Eppure, di quella notte Flaubert continuò a scrivere e a parlare, ma col tempo le prodezze della donna furono dimenticate, ma non il regalo che aveva lasciato al caro nostro scrittore. Fortunatamente nei ritratti e nelle fotografie dell’epoca, nessuno mostrava mai i denti.