Cosa significa “essere queer”? E, quesito ancora più importante, cosa significa “pensare queer”? Due domande fondamentali e, come capita con tutte le domande difficili, le risposte fioccano, si rincorrono, si accumulano, fino a soverchiare gli stessi interrogativi che le hanno generate. Ed è proprio per lasciare spazio ad ogni risposta che è nato il festival Bari diversa, svoltosi nel capoluogo in questi ultimi giorni.
Sulla scena del Piccinni si sono susseguiti numerosi ospiti, che hanno tenuto dibattiti e lectio su temi svariati e interessanti, come la pedagogia di genere, i ruoli di genere, l’identità di genere. Temi che hanno richiamato l’attenzione soprattutto dei giovani che hanno gremito lo storico teatro barese. Molti liceali, tra questi, che hanno rivolto domande agli esperti invitati a intervenire. Due giorni davvero intensi, durante i quali si è tentato di spiegare cosa sia il queer e quanto ci riguardi, quanto ci tocchi e parli di noi, più di quanto moltissimi altri termini abbiano mai fatto. Ma torniamo indietro e rispondiamo alle due domande che hanno generato tutto il resto.
Innanzitutto, queer significa “strano”, “bizzarro”. Si utilizza per indicare tutti coloro che fuoriescono da una precisa norma, che per secoli ci ha riguardato particolarmente. Infatti, ad aver dato origine al termine “normale” non siamo stati che noi occidentali: negli anni abbiamo creato una regola e abbiamo stabilito quali fossero le caratteristiche per potervi rientrare. Le principali sono, ovviamente, essere eterosessuali e, quindi, cisgender: possedere cioè un’identità sessuale che corrisponda al genere biologico, cioè il sesso con cui si nasce. Il queer è, di conseguenza, tutto quello che eccede dalla norma e che viene da sempre etichettato come sbagliato, strano. Qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi. Quello che, sfortunatamente, non si è capito – e che è emerso durante il festival – è che tali caratteristiche (che sanciscono e definiscono ciò che è “normale”) sono “catene” che costringono e avviluppano l’individuo, impedendogli di vivere secondo la propria vera natura.
“Tanti uomini non sanno di essere state vittime di violenza di genere. Non da parte delle donne, ma dai loro stessi simili, insomma da uomini come loro“, spiega Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, autore di moltissimi saggi tra cui l’ultimo, Filosofia: maschile singolare, pubblicato con Tlon, casa editrice che ha ideato l’evento barese. Molti uomini sono stati educati con precisi dettami: non devi piangere, devi essere forte, devi fare il maschio non la femminuccia, devi camminare in un certo modo, devi agire così, non devi fare così. E il risultato è di generazioni che non sanno rapportarsi con le loro emozioni, che credono sia normale essere presi in giro sul piano della virilità e che crescono con idee fuorvianti. “Dall’educazione parte il problema“, spiega Alessia Dulbecco autrice di un saggio illuminante, dal titolo Si è sempre fatto così! Spunti per una pedagogia di genere, che mette in risalto i diversi metodi educativi che hanno ricevuto i maschi e le femmine.
“Se ad una bambina insegnano sin da quando è piccola ad occuparsi della sorellina, del fratellino, della casa, è ovvio che crescerà con l’idea che a lei spettino mestieri di cura; che lei si debba occupare della casa e delle faccende domestiche. Se da quando è piccola, una ragazzina viene dirottata verso le materie umanistiche e le scienze umane, perché la si convince che non ha una mente analitica, logica e razionale, ci saranno dei mestieri che le saranno preclusi. E così accade per i ragazzi” osserva.
Ci sono dei lavori che sono preclusi agli uomini: per esempio, fare il maestro in una scuola materna, lavoro appannaggio delle donne. Non sono, però, delle idee nuove ma presenti nel tessuto sociale. “Ci sono attrezzi che usiamo nel quotidiano che sono stati testati sugli uomini e non sulle donne – spiega Lorenzo Gasparrini – e finanche farmaci che non sono pensati per le pazienti. Questo perché la maggior parte dei test, ancora oggi, vengono effettuati su un campione composto soprattutto da maschi bianchi ed etero. Perciò, non dobbiamo stupirci se ci sono prodotti che le donne trovano difficili da utilizzare. Non sono pensati per loro. Ma, secondo questa società, è normale che le donne debbano impegnarsi il doppio per utilizzarli“.
Su questa linea di pensiero molti altri esperti, specie Maura Gangitano e Francesca Romana Recchia Luciani, che hanno parlato della prigione della bellezza e di come tante costrizioni di genere passino attraverso i corpi. “Ad una donna si richiede di essere bella, curata, magra e tutto ciò che fuorvia da questi concetti viene visto come sbagliato – spiega Maura Gancitano, autrice di numerosi saggi, tra cui Specchio delle mie brame, pubblicato con Einaudi, nonché tra i fautori dell’evento e ideatrice, insieme ad Andrea Colamedici, di Tlon – e per secoli è stato così. Non è facile abbattere questi preconcetti; per questo, spesso, la bellezza viene concepita come una prigione, sia da chi rientra nelle caratteristiche richieste sia per chi non rientra“. La bellezza è, inoltre, soggetta costantemente ad una riformulazione e quello che per noi è un ideale, due secoli fa non avrebbe avuto fortuna. “Si tratta di peculiarità in continua evoluzione” spiega la divulgatrice.
Il festival si è concluso con la lettura di alcuni brani del libro di Michela Murgia, God Save the Queer. Catechismo femminista, sulla necessità di superare e riformulare le idee sbagliate di una società che sta cadendo a pezzi, tra violenza di genere, salari diversi a seconda del genere, fenomeni di bullismo sempre più violenti e radicali. E Murgia, da sensibile osservatrice della realtà, si domandava se non fosse possibile trovare nella religione cattolica, che sembra in ampia contraddizione con tutto ciò che è stato detto durante il festival, una valida alleata per fermare la violenza e fare sì che tutti si sentano accolti dalla società, linguisticamente e umanamente. “Vorrei capire, da femminista, se la fede cristiana sia davvero in contraddizione con il nostro desiderio di un mondo inclusivo e non patriarcale o se invece non si possa mostrare addirittura un’alleata. Da cristiana confido nel fatto che anche la fede abbia bisogno della prospettiva femminista e queer, perché la rivelazione non sarà compiuta fino a quando a ogni singola persona non sarà offerta la possibilità di sentirsi addosso lo sguardo generativo di Dio mentre dichiara che quello che vede è cosa buona“, scriveva Murgia.
L’evento per quanto davvero utile e interessante, non ha riscosso, tuttavia, il successo che avrebbe meritato. E’ mancata la volontà di coinvolgere le associazioni che per anni hanno compiuto un’instancabile opera di sensibilizzazione nei confronti della popolazione barese, organizzato il pride e tante altre iniziative, che hanno fatto sì che Bari diventasse un polo queer di incredibile importanza. Un’occasione che, si spera, non sfugga l’anno prossimo.