Ogni volta che penso a Dante, mi viene in mente un episodio umanissimo che il sommo poeta racconta nella Vita nuova, la sua opera giovanile. Era solo un bambino quando s’innamorò per la prima volta di Beatrice Portinari, detta Bice, e non faceva altro che pensare a lei. Scrive che amore “signoreggiò” l’anima sua e che poco c’era da fare. Quel dio alato l’aveva colpito con i suoi dardi, facendolo innamorare di quella che sarebbe diventata una tra le più belle donne di Firenze.
Quale valore aggiunto, Bice era anche di buona famiglia. Dante non avrebbe mai potuto avanzare pretese anche perché, a quei tempi, il matrimonio era un patto politico e fare figli era una necessità biologica, nonché un dovere per proseguire la casata e passare il cognome. Perciò, Dante non avrebbe mai potuto domandare di più che un saluto. Si può dire, però, che tutto sia iniziato per un saluto.
Beatrice passa e gli concede quel semplice gesto, e Dante – ecco l’episodio umanissimo di cui si parlava – si rintana in camera sua e la sogna. Fa un sogno che potremmo definire licenzioso e, allora, per raffreddare i bollenti spiriti, scrive un sonetto. E, da quel momento in poi, non smette mai. Scopre quanto doloroso possa essere il sentimento d’amore e quanto sia grande il potere della poesia e della scrittura, e capisce quale grande impatto possa avere sul prossimo. Eppure, non dimenticherà mai Beatrice, neppure alla sua morte, neppure dopo tanti altri. Al punto che, si dice, Dante abbia scritto la Divina Commedia solo per poterla incontrare in Paradiso.
Eppure, la Divina Commedia non è solo questo. Non si può ridurre a così poco il poema che ha dato inizio alla letteratura occidentale. E, trovandosi dinnanzi ad un’opera del genere, cosa può fare una povera compagnia teatrale? Beh, difficile dirlo. Eppure, Il Carro dei Comici è riuscito, per la seconda edizione, a fare qualcosa di impossibile, cui nessuno potrebbe credere: è riuscito a rendere itinerante la Divina Commedia, grazie a Borgo Infernum. La compagnia, nata più di dieci anni fa, è di Molfetta e ha la sua sede nell’ex frantoio, che ha ristrutturato e reso un teatro. Lo spettacolo è nato dalla creatività del regista e attore Francesco Tammaco, da Danilo Sancilo e dalla sua agenzia Evolve MCEC, impegnata sin dalla sua creazione a promuovere il territorio di Molfetta e Giovinazzo, da Gianpaolo Sinesi e dalla Scuola Comunale di Musica “Filippo Cortese” di Giovinazzo.
I tre ideatori hanno deciso di portare l’inferno dantesco nel centro storico di Giovinazzo, nei suoi vicoli, sulle sue scalinate, finanche nei pressi del porto. Gli spettatori sono stati catapultati nei gironi danteschi, camminando insieme agli attori e assistendo ad alcune delle storie più belle e strazianti mai scritte, tra danza e musica dal vivo, composta da Pantaleo Annese. Era incredibile notare con quanta passione e attenzione il pubblico seguisse i movimenti degli attori, si lasciasse guidare dalla loro voce e attendesse la prossima storia per emozionarsi ancora.
“Questo è il bello del teatro – commenta il regista, nei panni impegnativi di Dante – sentire le emozioni di chi assiste e di chi partecipa. Camminando, è come se i primi si sostituissero ai secondi; è come se cadesse totalmente il muro della finzione“. E così è stato. Ogni emozione, sensazione, palpito parevano mescolarsi, risaltare, inseguirsi, passare da persona e persona. Quello che nasceva come viaggio nel dolore, nella città eterna, nell’incubo dell’Inferno, prendeva la forma di una discesa nella compassione, nella rappresentazione più viva della nostra umanità. Le anime dei dannati sono divenute la più vivida personificazione di noi stessi, dei nostri sbagli, delle nostre paure.
Non è mancata neppure la commozione tra il pubblico, soprattutto per la storia agghiacciante del Conte Ugolino, interpretato da Francesco Consiglio. Quest’ultimo, ripiegato su un piedistallo, ha sollevato la bocca dal “fiero pasto” e ha scrutato uno ad uno gli spettatori. Erano gli occhi di un assassino, di un mendicante, di un’anima persa e irrecuperabile. Nessun dannato aveva i suoi occhi, nessuno serbava nella cavità oculare un simile struggimento, un urlo soffocato nella notte. Non ci sarebbe potuto essere migliore interprete per la storia dolorosissima del Conte Ugolino della Gherardesca, rinchiuso nella Torre della Muda, a Pisa, e costretto a divorare i corpi dei suoi figli, ormai defunti.
Come Lady Macbeth, dopo aver ucciso e ordito gli omicidi insieme al marito, strofinava le mani vedendole sempre insanguinate, così il Conte pareva essersi cristallizzato in quell’oscuro gesto, in quel divorare ciecamente il capo, gli arti, le membra dei suoi stessi figli. Non vi era altro che sofferenza nei suoi gesti convulsi e nella loro ripetitività. Tra il pubblico, diviso in gruppetti più piccoli, non mancava chi piangesse, chi osservasse con occhi distrutti la scena e seguisse con dolore il racconto. Nessuno è rimasto impassibile, nessuno ha guardato con occhi ricchi di biasimo questo padre, annichilito dalla sofferenza.
Lo spettacolo è durato solo quaranta minuti e comprendeva due turni diversi. Eppure, sembrava far parte di un unico grande show, perché le emozioni di chi aveva assistito erano destinate a congiungersi a quelle di coloro che avrebbero ammirato subito dopo queste storie. Ho lasciato quei giochi di luce, quelle musiche, quelle storie, ma tutto ha continuato a risuonarmi nella mente e nel cuore.
E per quanto mi allontanassi dalle strade ove si svolgevano le performance, per quanto camminassi e mi perdessi tra le piazze e i vicoli di Giovinazzo, continuavo a incontrare sempre gli stessi volti di chi era sceso insieme a me all’Inferno. Erano pensierosi. Erano ancora persi nella bellezza dei versi di Dante e in quel suo viaggio nella selva oscura e nella voragine infernale.
Un viaggio che si può fare ancora stasera, per la seconda e unica volta, e che vi consiglio di non perdere.