Il presepe è più “reale” se sono i pupazzi ad animarlo

E' un successo l'originale rappresentazione di "Natale in casa Cupiello", portato in scena al teatro di Corato da Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia

“Non si comprende nulla del presepe se non si comprende che l’immagine del mondo cui esso presta la sua miniatura è un’immagine storica, perché esso mostra il mondo della fiaba nell’istante in cui si desta dall’incanto per entrare nella storia”. È quanto scrive il filosofo Giorgio Agamben in un saggio del 1977, contrapponendo l’immagine fissata nel presepe a quelle tipicamente associate alle fiabe. Se queste ultime sono l’espressione del meraviglioso, le prime hanno, come loro materia principale, la storia. Nel presepio, dice Agamben, siamo restituiti all’univocità e alla trasparenza degli avvenimenti storici: il presepio, infatti, funziona come un fotogramma della storia, fissa realmente il tempo in un’immagine precisa, non con il linguaggio del mito o l’artificio della favola, ma nel brevissimo intervallo (che il filosofo definisce «messianico») tra i due istanti.

È una definizione utilissima a decifrare il misterioso e affascinante Natale in casa Cupiello proposto, per la stagione teatrale del comune di Corato, da Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia: un testo – quello celeberrimo di Eduardo De Filippo – “presepizzato” in una messinscena non convenzionale che vede un unico attore, lo stesso Saccoia, interagire con sette pupazzi realizzati dallo scenografo Tiziano Fario, già collaboratore di Carmelo Bene, qui autore dell’intera scenografia. L’idea proviene dallo stesso De Filippo, quello senile de La Tempesta di Shakespeare, in cui già aveva sperimentato la possibilità di dare la voce a tutte le marionette dei Colla.

I pupazzi di Natale in casa Cupiello sono animati sul palco da un gruppo di manovratori costituito ad hoc per il progetto e coordinato da Irene Vecchia, dopo un laboratorio di formazione svoltosi con il sostegno della Fondazione Campania dei Festival nell’ambito della rassegna Quartieri di Vita 2020. Solo in un luogo come il Teatro Area Nord, sede di Teatri Associati di Napoli, nel quartiere di Piscinola, poteva infatti nascere e crescere uno spettacolo di questo tipo: una vera e propria officina produttiva che ci consegna l’audace – ma allo stesso tempo fedele – reinterpretazione del classico natalizio più famoso del teatro italiano.

Saccoia dà quindi voce, come attore unico, con opportune variazioni di registro vocale, alla quasi totalità dei personaggi della commedia, come nella migliore tradizione del teatro dei pupi napoletani, dominando la scena con la sua presenza autorevole. Nel primo atto i pupazzi compaiono per lo più solo affacciati da finestrelle ritagliate sul fondale e fungono da comprimari di Luca Cupiello, che si manifesta al pubblico come presenza febbricitante, preda di visione fantasmatiche con cui crea un surreale «soliloquio corale».

Lo vediamo parlare sopra agli altri personaggi della commedia, simulare con la bocca le loro battute, demiurgo, autore e interprete della stessa rappresentazione di cui è protagonista: ossessionato dalla tradizione che è tanto quella del presepe, quanto quella di Natale in casa Cupiello, ormai patrimonio collettivo di intere generazioni, oggetto di un rituale che si ripete ogni anno, quasi proustianamente, con rivisitazioni più o meno coraggiose (si pensi a quelle di Antonio Latella o di Fausto Russo Alesi). Ed è questo elemento metatestuale, il giocare con una tradizione natalizia di cui lo stesso testo di De Filippo adesso è nobilmente simbolo, insieme al presepe, al capitone sulla tavola e a tutta la ritualità tipica delle feste.

L’immaginario, perciò, è vinto dalla realtà, dalla concretudine dei materiali di cui son fatti i pupazzi, che dimostra come il presepio non sia solo un dato cronologico di duemila anni fa, bensì rappresenta, come scrive appunto Agamben, «un evento kairologico»: non un momento puntuale, ma piuttosto l’occasione opportuna, il tempo favorevole e la condizione necessaria perché la storicità prenda il volo e faccia sussultare il mondo.

In questo senso, la favola originale di De Filippo si è ormai ampiamente storicizzata, così come la crisi della famiglia borghese che il testo brillantemente affrontava, raccontando il progressivo allontanamento da quell’insieme di consuetudini e costumi su cui si fondava la stessa cultura popolare: quella che, come riteneva anche Pier Paolo Pasolini, costituiva “l’espressione più onesta e accurata della natura umana nella sua purezza” (definizione di Stefano Piacenti, regista e docente di Storia dello spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di Roma). 

Come dicevamo, nel rispetto del capolavoro di Eduardo, gli atti di questa nuova versione firmata da Ambrosino e Saccoia sono tre. Nel secondo, attorno alla tavola della cena della Vigilia, si svelano gli altri manovratori e le figure mosse a vista diventano magnificamente “kantoriane”, con cui il direttore d’orchestra dialoga, anticipando una conclusione di delirante ricomposizione familiare davanti al capezzale del padre: armonia ritrovata nella morte e nell’ascesa di un angelo che porta con sé in cielo il pupazzo di Luca Cupiello/Eduardo De Filippo. Un finale in cui tutto diventa finalmente presepe: i pupazzi e gli attori che fino a quel momento li avevano manovrati.

Come si sa, l’idea di allestire un presepio vivente risale al 1223. Fu Francesco ad adunare a greggio fedeli che si prefiggessero di render visibili «con gli occhi del corpo» i disagi dell’infanzia di Gesù. Dunque il presepio assunse il valore di un tangibile exemplum dal quale trarre dettami di un’etica della povertà. “Natale in casa Cupiello” rilegge quel messaggio iniziale alla luce della secolarizzazione e della nuova società consumistica e nichilista.

Assistiamo, da spettatori, annualmente, all’infinito ripetersi dell’ultima grottesca gaffe che Luca Cupiello inconsapevolmente inscena prima di spirare: scambiando Vittorio, l’amante della figlia, per Nicola, il “legittimo” marito di lei, unendo le mani del giovane con quelle della ragazza, pregandoli di far pace in sua presenza. Non è un “atto mancato” quello che colloca fuori dalla realtà delle cose il protagonista (come in altri antieroi della letteratura novecentesca, tipo lo Zeno di Svevo, come fa notare il prof. Giorgio Taffon, docente di Letteratura Teatrale Italiana), ma un “atto sbagliato”.

Ed è da quell’atto sbagliato che, mosso da un senso di pietà, Tommasino sceglie di pronunciare il fatidico “sì” che fino a quel monumento aveva negato. Il figlio, tra spirito di libertà e senso di colpa, proseguirà la tradizione tanto amata dal papà morente? La risposta, in questo caso, viene data attraverso il dispositivo teatrale. Scegliendo di far raccontare la storia fin dall’inizio al “piccolo” di casa, che ripercorre così le sciagurate vicende della sua famiglia, capiamo una cosa: quello a cui stiamo assistendo è già il “suo” presepe.

Le foto sono di Anna Camerlingo