“Viva la Libertà” è la dedica che Patrick Zaki scrive su ogni libro che in questi giorni gli capita di firmare nelle varie presentazioni in giro per l’Italia. Un tour che lo ha condotto anche in Puglia, prima a Bisceglie e poi a Lecce, per raccontare la sua dolorosa esperienza di prigionia: gli interrogatori, l’isolamento, le torture, il confronto con un mondo in cui anche il più basilare dei diritti umani è calpestato.
Nonostante alcune polemiche delle ultime ore sui social, specie dopo la sua dura presa di posizione nei confronti di Netanyahu (definito un “serial killer”), che hanno persino causato l’annullamento di alcuni eventi già programmati, gli organizzatori del festival Libri nel Borgo Antico hanno rivendicato con convinzione la scelta di averlo invitato, insieme ai ragazzi di Amnesty International di Bisceglie, in quanto “testimone di libertà, non solo fisica, ma di pensiero e di idee”.
Una scelta che si può reputare senz’altro vincente, osservando le immagini del Politeama Italia gremito di gente che ha stretto Zaki in un grande abbraccio, facendolo sentire a casa e dimostrando, più di ogni altra cosa, come la solidarietà manifestata nelle piazze e rivolta alla sua scarcerazione deve oggi tramutarsi in un sostegno alla libertà di potersi esprimere, anche nel dissenso e nella contestazione politica. Il pubblico ha ascoltato le sue parole con attenzione, accogliendo l’esperienza di oppressione e privazione della libertà che Patrick ha raccontato nel suo libro e dal palco: ovvero sedimentazione ed elaborazione di un vissuto doloroso in vista del ristabilirsi di una continuità intesa come capacità di dare significato al presente e di orientare le proprie azioni per il futuro.
Un racconto che comincia proprio da quelle ore terribili del 7 febbraio 2020, quando Patrick decise di tornare al Cairo, a casa sua, da Bologna, dove studiava, per una breve pausa dagli esami e dalle lezioni. Si doveva fermare pochi giorni e, invece, con un pretesto assolutamente banale, fu fermato dagli agenti e trasferito in prigione, dov’è rimasto per venti lunghi mesi. “Agli arrivi non ero comparso. Funziona così, in Egitto: la polizia può farti scomparire, per un periodo variabile: può essere un’ora, possono essere ventiquattro ore, puoi non comparire più”, racconta Zaki.
E così prosegue: “In questa fase di sparizione, nessuno sa dove sei, nessuno può prendere le tue difese, nessuno sa cosa ti stanno facendo; sei completamente in mano loro, senza diritti. Per questo è la fase più pericolosa. Se sei scomparso, non esisti. Nessuno può essere incolpato per quello che ti succede, perché semplicemente non ci sei e non si sa dove sei. I tuoi familiari in questi casi sono disperati perché non sanno niente di te. Per questo avevo voluto avvisare mio padre: io c’ero, ero arrivato al Cairo. Se sparivo era per colpa loro”. Quella chiamata alla famiglia, per comunicare ciò che stava accadendo, ha permesso a Patrick di tenere alta l’attenzione sul suo caso fin dal primo momento, riuscendo ad evitare il cono d’ombra che si stringe sempre più pericolosamente attorno ai “prigionieri di coscienza” nelle prime ore dopo il loro arresto, durante le quali può letteralmente accadere di tutto.
Anche per questo Patrick, con un paradosso, si definisce “il prigioniero più privilegiato della storia”, specialmente per essere stato protagonista di mille iniziative, istituzionali e non, organizzate per chiederne l’immediato rilascio: nelle scuole, nelle università, per le strade. In Italia gli hanno dato la cittadinanza onoraria, a parte Bologna, comunità che lo stesso Zaki non aveva mai sentito nominare prima, e che però conoscevano lui, e avevano deciso di lottare per la sua scarcerazione: Tollo, Rimini, Poggibonsi, Marigliano, Lauria, Cerreto Guidi, Procida, Sesto San Giovanni, San Miniato, Sinnai, Zaragola, Ferrara, Imola. E ovviamente Bisceglie, Molfetta e Lecce, le città pugliesi che Zaki non ha perso occasione di visitare in questi ultimi giorni per ringraziare personalmente gli amministratori locali e i cittadini che non hanno fatto mancare il loro sostegno nei mesi della sua prigionia.
La spontaneità, però, va provocata, spiega Zaki in Sogni e illusioni di libertà. La mia storia, edito da La Nave di Teseo. “Le cause civili hanno bisogno di attenzione; le persone prima di tutto devono essere informate e poi devono sentirsi coinvolte: il mio arresto non era solo un mio problema, doveva essere chiaro che era un problema per tutti. Per la libertà di un paese con cui tutti, in Occidente, hanno rapporti, ed era un problema rispetto a cui ciascuno, se poteva, doveva attivarsi in prima persona”. Anche per questo, alle giovani studentesse delle scuole di Bisceglie intervenute per fargli alcune domande, ha suggerito di avvicinarsi al gruppo cittadino di Amnesty International e unirsi alle loro battaglie in difesa dei diritti umani nel mondo.
“In Egitto c’è una grave povertà educativa e tantissimi vivono disinteressandosi di ciò che accade nel loro paese e all’estero, accontentandosi solo di informazioni approssimative”, spiega Zaki, prima di un doloroso passaggio su Giulio Regeni, con cui è stato spesso confuso durante la sua permanenza in carcere. “Più volte mi sono sentito chiamare Giulio dalle guardie e dagli altri prigionieri. Dicevano: questo è il famoso ragazzo italiano, il ragazzo per cui stanno facendo manifestazioni nelle strade. Sì, è il ragazzo italiano, è Giulio”.
“Regeni però era un grande intellettuale, uno stimato accademico. E la sua storia, il suo lavoro, rimarrà per sempre con noi”, dichiara Zaki. “Quando ascoltavo il suo nome in cella, si agitavano dentro di me sentimenti contrastanti. Da un lato ricordavo l’epilogo tragico della sua vicenda, dall’altro mi rendeva orgoglioso pensare che qualcuno lo credeva ancora vivo. È una testimonianza di quanto sia stato fondamentale e dirimente il suo lavoro, per il quale dobbiamo tutti essergli riconoscenti”, conclude.
Nella foto in alto, Patrick Zaki