Non occorrono eroi ma cittadini che amano la giustizia

Nella riflessione di Giuseppe Antoci, già coordinatore di Federparchi Sicilia, ospite di Barletta in Rosa, il valore della formazione dei giovani nella lotta alle mafie

È il 18 maggio del 2016 quando l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, è vittima di un attentato. Il movente è un protocollo contro la criminalità organizzata nel settore agroindustriale che porta la sua firma. A sostenerlo con forza, il procuratore generale di Messina, Vincenzo Barbaro.

Nato a Santo Stefano di Camastra l’11 gennaio 1968, laureato in economia e specializzato in attività bancaria, Antoci si era candidato al senato alle politiche del 2013. Successivamente era stato nominato presidente del Parco dei Nebrodi e dal 30 marzo 2014 aveva ricoperto l’incarico di coordinatore di Federparchi Sicilia. In un’intervista a Rai Uno, durante la puntata “Supereroi” del 7 agosto 2016, Andrea Camilleri definì Antoci “un eroe dei nostri tempi”, una persona coraggiosa che facendo il proprio dovere combatte la mafia.

Giovanni Di Benedetto intervista Giuseppe Antoci

Ad illustrare alla comunità l’impegno di Antoci e ad omaggiarne la personalità, nella cornice della chiesa di Sant’Andrea, è il centro studi Barletta in rosa insieme al dott. Lorenzo Chieppa, presidente della Caritas e a Giovanni Di Benedetto, giornalista di Telenorba. All’evento partecipa anche il presidio di Libera, associazioni nomi e numeri contro le mafie, l’arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie, Leonardo D’Ascenzo, e il procuratore generale della Repubblica di Trani, dott. Renato Nitti.                 

Una serata all’insegna della passione civile e del rispetto della legalità, che ha visto al centro un fedele e convinto servitore dello stato, il quale scevro da ogni forma di protagonismo ha preferito parlare di se stesso come un padre di famiglia, piuttosto che come un eroe, impegnato da sempre nella difesa dei principi stabiliti dal diritto e per l’affermazione di una società più solidale.

Ma torniamo a quel drammatico 18 maggio del 2016, quando Antoci subì l’attentato mafioso, dal quale uscì illeso grazie all’auto blindata e all’intervento della scorta. Il famoso protocollo, che ledeva gli interessi della mafia rurale dei Nebrodi e avrebbe potuto costargli la vita, è stato recepito dal nuovo codice antimafia, votato in parlamento il 27 settembre 2017 e applicato in tutto il paese. Il testo prevede la presentazione del certificato antimafia anche per bandi inferiori a importi di 150mila euro: un danno per quanti spremono milioni di euro alla Comunità Europea che destina tali risorse alle attività agroindustriali.

“Il protocollo è stato uno strumento per combattere la criminalità – spiega Giuseppe Antoci – come ho raccontato nel libro ‘La mafia dei pascoli’, presentato qualche anno fa Roma alla presenza di tutte le principali autorità dello stato. Se in quell’occasione avessi raccontato che una parte dell’aeroporto Punta Raisi di Palermo era in mano ai mafiosi, non mi avrebbero creduto».  

Nel 2022 si è concluso il processo alla cosiddetta mafia dei Nebrodi, i clan messinesi che avevano messo in piedi una truffa milionaria ai danni dell’Unione europea. Sono state decise condanne per 600 anni complessivi a carico di 90 imputati. La sentenza ha disposto anche la confisca di 17 ditte individuali e società agricole, e il risarcimento per gli imprenditori che avevano denunciato l’appropriazione dei terreni da parte dei mafiosi, le associazioni antiracket e tutte le altre parti civili costituite.

Una grande vittoria di cui Antoci va orgoglioso ma che non considera un punto d’arrivo: si tratta di una tappa della battaglia alla criminalità organizzata ancora tutta da giocare. “Bisogna capire i meccanismi alla base della mentalità di un mafioso. Solo così si può spiegare l’odio di questa gente nei confronti di chi ha il compito di far rispettare la legge. Io penso che come la moglie di un ufficiale sa a cosa va incontro il marito anche la moglie di un mafioso sa che il marito potrebbe andare in carcere. L’odio di chi vive ai margini della legaltà non deriva dunque dall’arresto ma dal fatto che alla famiglia del mafioso vengono sottratti tutti i beni, le auto, le ville e, di conseguenza, quel timore e quella rispettabilità conquistati sul territorio. ‘Ci hanno rovinato’ è infatti l’espressione che ho sentito ripetere più spesso dai boss arrestati”.

“L’errore che non bisogna commettere è pensare ‘non tocca a me ma allo stato’, come se lo stato fosse un’altra cosa. Non bisogna essere un pubblico ufficiale oppure un politico per poter dare un contributo a risolvere le cose. Se siete insegnanti, innestate nei giovani il seme della legalità. Se siete genitori, educate i vostri figli al fatto che sono loro, non il futuro, ma il presente della nostra società”, conclude.

Nella foto in alto, Giuseppe Antoci