Il Leopardi di Rubini “aggiusta la realtà con la menzogna”

Se l'idea del regista pugliese era realizzare un'icona pop del poeta dell'Infinto, il risultato appare incerto e non in grado di misurarsi col mercato estero

Quando Federico Fellini, nel 1987, gli affidò il ruolo di se stesso da giovane nel film Intervista, Sergio Rubini non aveva ancora 28 anni. Di quell’esperienza, il regista e attore pugliese racconta spesso un aneddoto: “Fellini diceva sempre che somigliavo a De Sica. Allora, per farmi somigliare a sé, inventò per me una biografia immaginaria. Era fatto così: aggiustava la realtà con la menzogna”.

Un insegnamento che Rubini pare aver preso alla lettera per la sua miniserie Leopardi – Il Poeta dell’Infinito, che rappresenta lo scrittore recanatese come un bel giovane (Leonardo Maltese), senza gobba, nel tentativo di raccontare un “altro” Leopardi, diverso dall’uomo vittima del suo corpo e delle sue sofferenze fisiche, spostando l’accento sul genio del pensiero e sull’universalità della sua poesia. Vasto programma, insomma: fare di Leopardi un’icona pop. Non più lo studioso curvo sui libri ma un esuberante “enfant prodige” che desidera divorare il mondo e viverne appieno ogni sfaccettatura.

Dopo I Fratelli De Filippo, quasi un seguito involontario di Qui Rido Io, Rubini si ritrova ancora una volta sulla scia di Mario Martone, che già aveva proposto una sua versione cinematografica del poeta ne Il Giovane Favoloso. Il riferimento, però, stando a quanto dichiarato dallo stesso Rubini, è un altro, persino più alto e “autorevole”, ovvero il capolavoro Amadeus di Milos Forman, incentrato su una presunta quanto improbabile inimicizia tra Mozart e Salieri. “L’incontro tra i due, in realtà, non è mai avvenuto ma quel film ha divulgato l’idea del mondo di Mozart e ha reso pop la musica classica”, ha spiegato Rubini ad Avvenire. Aggiustare la realtà con la menzogna, si diceva prima.

Rubini, infatti, tenta una strada personale fin da subito e fa cominciare la sua miniserie nel 1837 con l’amico del poeta, Antonio Ranieri (Cristiano Caccamo) che, in una notte di temporale, dalle tinte gotiche, cerca di convincere don Carmine (Alessandro Preziosi) a dare degna sepoltura a Giacomo che è appena morto. Il sacerdote si oppone perché, sostiene, Leopardi era ateo e Ranieri, per convincerlo, inizia a ripercorrere a ritroso la vita dell’amico proprio a partire dalla sua educazione religiosa e dalla decisione dei genitori di destinarlo alla carriera ecclesiastica. Appena riavvolgiamo il nastro della storia, Rubini, insieme agli altri due sceneggiatori, Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini, fin da subito mette in risalto il contesto fittizio, teatrale, della sua serie, con quel conte Monaldo (Alessio Boni) così stentoreo, così rigido nei modi, nelle pose, da sembrare una maschera da commedia.

Più la miniserie va avanti, cercando di rendere avventurosa un’esistenza che è difficile pensare come il materiale più adatto per una serie tv – tanti anni passati in una stanza a studiare e a scrivere, qualche trasferta e un amore mai davvero vissuto – più Rubini trasforma i suoi protagonisti in personaggi coscienti della propria funzione narrativa. Persino l’amore diventa una “storia” d’amore, sentimento che si compie solo nella scrittura, nella finzione, nell’immaginazione. E così Ranieri finisce per avvertire nitidamente il proprio ruolo di personaggio, insieme a Fanny, all’interno di questa storia scritta, inventata da Leopardi.

Quello che manca, come spesso avviene per questo tipo di produzioni, è semmai uno stile di regia proprio (che Rubini pure ha dimostrato d’avere nella sua lunga carriera dietro la macchina da presa), delle idee visive personali o anche solo un’intuizione che gli consenta di creare qualcosa che vada più in là dell’essere semplicemente corretto e convenzionale (in cui cioè tutti sono inquadrati mentre parlano e non ci sono problemi o errori). Rubini rivendica – anche in seguito a stroncature “celebri” come quella di Aldo Grasso sul Corriere – di aver realizzato una serie oltre “gli steccati politici, partitici, ideologici”, in grado di misurarsi con il mercato, con Netflix, e di divulgare, far conoscere, incuriosire giovani e meno giovani su uomini che non siano solo preti o commissari. Se sulla seconda affermazione ci si può trovare d’accordo, è sulla prima che nascono i dubbi.

Che pubblico avrebbe una serie come questa al di fuori della Rai, al di fuori dell’Italia? Per avere un esempio di come si fanno le cose da altre parti, non serve andare lontano. In Francia, lo scorso anno, si è fatto un gran parlare del successo al botteghino della trasposizione cinematografica de Il Conte di Montecristo (differente dalla serie che sta andando in onda su Rai 1 in questi giorni). Un trionfo al di là delle Alpi – dove si sta facendo un lavoro serissimo sul costruire un’industria cinematografica/seriale attorno all’opera di Dumas – che da noi è ancora inedito.

Il film, scritto per condensare i mille colpi di scena del romanzo in tre ore, rende onore a quella “scienza” da scrittore seriale che ha fatto guadagnare ad Alexandre Dumas la reputazione di “entertainer” ante litteram, maestro dell’economia dell’attenzione. Un prodotto che cerca un compromesso tra le proprie aspirazioni autoriali e la necessità di raggiungere il grandissimo pubblico, a cominciare dalla scelta degli attori. Non è un caso che Bastien Bouillon, per anni giovane speranza di un nuovo cinema d’essai francese, incroci le spade con Pierre Niney, uno degli attori più pagati del momento in Francia, volto di Lacoste che è impossibile non incrociare sui manifesti pubblicitari camminando per le strade di Parigi, simbolo di un cinema mainstream e patinato. Le due multinazionali che producono, Pathé e Mediawan (attraverso la Chapter 2 di Dimitri Rassam) hanno deciso che queste due concezioni di cinema possono esistere allo stesso tempo, al di là delle loro differenze.

L’omonimo romanzo di Dumas, grazie alla trasposizione di Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière, ha trovato un pubblico completamente nuovo, desideroso di approfondire l’universo letterario che si nasconde dietro al film. Durante l’estate, infatti, il libro è schizzato in cima alle classifiche di vendita, diventando uno dei romanzi più letti nel corso dell’estate, così come accaduto poco prima a I Tre Moschettieri, dopo il dittico di film dedicato a D’Artagnan e Milady (realizzati dallo stesso gruppo di lavoro de Il Conte di Montecristo).

I due sceneggiatori, dopo Dumas, sono stati chiamati a rimettere a lucido un’altra icona della cultura francese, ovvero l’Asterix di Goscinny e Uderzo. Saranno loro a occuparsi della storia del prossimo Le Royaume de Nubie, in uscita nel 2026: un film d’animazione (industria cinematografica che in Italia praticamente non esiste).

Questo, forse, vuol dire ragionare in maniera ampia, serie e strutturale, su quella valorizzazione – in chiave pop, qualsiasi cosa questo termine voglia dire – del “patrimonio nazionale” di cui parla Rubini. Purtroppo, sembra ancora fantascienza.

Nelle immagini alcune scene di Leopardi – Il poeta dell’infinito