Giura di non aver ancora visto È Stata la Mano di Dio, il nuovo e acclamatissimo film di Paolo Sorrentino, ma la sua attesa schiva e un po’ distaccata rivela già tantissimo di lui. Antonio Capuano, classe 1940, nella pellicola di Sorrentino conserva il suo vero nome, omaggio totale del premio Oscar al suo mentore, ma a dargli corpo sullo schermo è Ciro Capano. “Paolo ha scelto un attore completamente diverso da me, tutto il contrario. Massiccio, mani grandi, mi sono chiesto: ma davvero mi vede così gruoss?”, commenta Capuano, il personaggio che nel film domanda a Fabietto Schisa – alter-ego dello stesso Sorrentino – se “tiene qualcosa da raccontare”, in una delle scene più belle, una di quelle in cui Napoli si sporge sempre più verso il Tirreno fino a liquefarsi, diventando una immensa distesa di acqua in cui tuffarsi e riemergere diversi.
A vederlo adesso, dopo l’evocazione cinematografica sorrentiniana, l’ultimo film di Capuano – Il Buco in Testa, presentato fuori concorso alla 38esima edizione del Torino Film Festival – sembra una colata di lava che precipita in pasto ai pesci. Un film in cui traspare sempre un’adesione incondizionata agli avvenimenti del mondo, pulsanti in un digitale poco lavorato, con il sonoro che suggerisce agli occhi più di quanto non faccia il fotogramma.
Anche Sorrentino, con il suo ultimo lavoro, è finalmente tornato dopo anni di cinema rifinito e autosufficiente a ribellarsi all’immagine data una volta per tutte, con un film in potenza, teso verso una narrazione che può cominciare davvero solo dopo i titoli di coda. Un film che rende evidente la lezione di Capuano: cogliere lo slancio, farsi veggente di un racconto successivo al cinema stesso. Un cinema a venire che sfugge la necrosi delle immagini perché irrimediabilmente embrionale, prenatale. “È mai possibile che questa città non ti fa venire in mente niente da raccontare?”, tuona veemente il personaggio di Capuano al giovane Fabietto, in un momento decisivo nel suo percorso per affrancarsi dal diminutivo. Non c’è da meravigliarsi che uno così abbia esercitato una fascinazione decisiva su Sorrentino, che lo ha ringraziato pubblicamente per non essere mai stato accomodante, per non averlo mai lusingato: “Tra noi c’è un conflitto che è bello e sano. Quando tentavo di fare il mio primo film, L’uomo in più, e gli raccontavo qualche scena che avevo in mente, non gli andava bene nulla. Forse aveva ragione, perché all’epoca dicevo le classiche ingenuità di ogni aspirante regista. È stato fondamentale per me”.
Il Buco in Testa, presentato a Bari per la rassegna Registi fuori dagli sche[r]mi, proprio nel giorno in cui arrivava in sala il film di Sorrentino, è liberamente ispirato alla vicenda di Antonia Custra, che nel 2007 decise di andare da Torre del Greco a Milano per incontrare l’uomo che aveva ucciso suo padre, il vicebrigadiere Antonio Custra, nel 1977. “Cerco di fare le cose con molta onestà”, spiega Capuano, prima di correggersi immediatamente: “Anzi, onestà è una parola fastidiosa: diciamo che cerco di fare le cose come le penso e come le sento, senza nascondigli. Spesso si dice che fare cinema è come giocare. Ciò che non si dice, però, è che il gioco è una cosa dura e verissima. Soprattutto quello dei bambini, che è serio e accanito. Se giochi con un bambino di quattro anni e gliela dai vinta, quello se ne accorge. Bisogna giocare, sì, ma con la determinazione di chi vuole vincere”.
Pur ammettendo una fascinazione per tutto ciò che lo circonda e per la gente (“io non vedo differenza tra Woody Allen e il fruttarolo, entrambi sono una fonte d’ispirazione per me”), c’è un riferimento rispetto al quale Capuano non può e non vuole smarcarsi: quello di Pier Paolo Pasolini. “Un giorno lo vidi dal finestrino di una macchina RAI – racconta – in Piazza Dante a Napoli, all’inizio degli anni Settanta, dove stava girando ‘Il Decameron’. Feci inchiodare la macchina, lo raggiunsi e gli saltai addosso. Lui mi salutò allegro e ci abbracciamo. Fu una cosa spontanea. Quell’abbraccio lo sento ancora. Così come mi affascinano ancora i suoi salti di campo mirabolanti, Pasolini se ne fregava delle regole cinematografiche. A chi gli faceva notare delle incongruenze tecniche, rispondeva: Il cinema? Io conosco Piero della Francesca, conosco Paolo Uccello”.
Proprio citando il corvo di Uccellacci e Uccellini, che diceva che i “maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante”, l’ottantunenne Antonio ha scherzato con l’allievo Paolo, 51 anni, al suo fianco al cinema Troisi di Roma qualche settimana fa prima della proiezione di Polvere di Napoli, il film del 1998 che Capuano scrisse insieme al ventottenne Sorrentino, che all’epoca si guadagnava da vivere scrivendo le puntate de “La Squadra” per RaiTre. “Io l’ho ucciso e poi l’ho risuscitato”, ha risposto con ironia e affetto il regista di “La Grande Bellezza”.
La rassegna Registi fuori dagli sche[r]mi, a cura di Luigi Abiusi, prosegue domani 16 dicembre con un nuovo appuntamento: Leonardo Di Costanzo presenterà al pubblico del Teatro Kursaal Santalucia di Bari il suo Ariaferma, in cui due grandi figure del cinema italiano contemporaneo, Tony Servillo e Silvio Orlando, si confrontano in uno scenario allo stesso tempo reale e metafisico di un carcere ottocentesco ormai in dismissione. Se solitamente le rivolte carcerarie del cinema sono fondate su piani complessi e ben eseguiti – violenza, sedie che volano e pistole rubate alle guardie – quella di Ariaferma è una sommossa condotta a parole, senza muoversi, innescata dalla chiusura della cucina e dal rifiuto del cibo precotto da parte dei carcerati. Fa sorridere quanto italiana sia questa idea, che però viene utilizzata in un film in cui non c’è nulla da ridere, rigoroso e in grado di gestire molto bene la tensione (grazie soprattutto alla colonna sonora di Pasquale Scialò).
È l’esempio emblematico di un cinema italiano che non si nasconde nell’ombra di una internazionalità che appiattisce, ma che rimarca le proprie specificità rendendole universali, estraendole da un contesto culturale e geografico che restringe il campo dell’immedesimazione. Grazie ad una rassegna come Registi fuori dagli sche[r]mi (che in passato ha ospitato anche Franco Maresco, dando la possibilità a molti spettatori di scoprire quel capolavoro, disconosciuto da Rai Cinema, che è La mafia non è più quella di una volta) è possibile avvicinarsi al meglio della produzione cinematografica del nostro Paese, apprendendo dalla viva voce dei registi le tribolazioni e le contraddizioni che bisogna affrontare per fare cinema in Italia oggi.
Nella foto in alto, Antonio Capuano e Paolo Sorrentino al Cinema Troisi di Roma