Il 2 novembre di 49 anni fa viene ritrovato all’Idroscalo di Ostia il corpo esanime di Pier Paolo Pasolini, il poeta corsaro, lo scrittore, il saggista, lo sceneggiatore, il regista, una delle personalità più vive, più interessanti, più controverse e più scomode di tutto il Novecento. Muore il narratore e critico corsaro, il cantore dei sobborghi romani, l’uomo di cinema, certo, ma muore soprattutto uno degli ultimi intellettuali a tutto tondo. Con lui, forse, se ne va l’idea stessa di intellettuale, così come lui stesso l’aveva nel tempo elaborata, digerita, proposta, vissuta. L’idea di un Intellettuale con la I maiuscola. Come lui – in effetti – era.
Confesso di non averlo mai particolarmente amato e di aver scritto di lui, sinora, poco o nulla. Sottolineo sin da subito, per evitare eventuali, possibili, fraintendimenti che non accennerò neppure alla sua diversità, in quanto in questo frangente non ho proprio nessuna voglia di discutere del nulla, di occuparmi dell’incomprensibile, quanto vasta stupidità umana.
Confesso, dunque, ciò che ho detto, ma oggi, giorno della sua morte, che mi trovo qui a scrivere di lui, ne riconosco – pur tra mille contraddizioni – l’incontrovertibile grandezza. Pasolini è un uomo a cui è doveroso rendere onore, in un’attualità dove la figura dell’intellettuale sembra sparita del tutto, come la nebbia alla Stazione di Milano all’arrivo dei fratelli Capone.
La sua idea di intellettuale – il suo ruolo, la sua funzione – è a me peraltro molto cara. Pasolini la esplicita a chiare lettere in un articolo sul Corriere della Sera poco più di anno prima di quel tragico giorno di novembre. L’intellettuale è un uomo del presente che guarda al futuro, conoscendo il passato, che tenta ogni giorno di seguire ciò che accade intorno a lui, di conoscere e interpretare al di là delle apparenze, di immaginare l’immaginabile, di scoprire ciò che si vuole, invece, caparbiamente nascondere. L’intellettuale è un uomo capace di mettere in ordine le molte fila del discorso, di ricostruire e collegare pezzi apparentemente lontani, di ricontestualizzare – come in una sorta di puzzle della memoria storica e sociale – fatti vicini e lontani, immagini frammentate, volti e luoghi senza visibile nesso, incoerenti, talvolta a prima vista persino banali. All’intellettuale nulla sfugge e questa sua straordinaria capacità di vedere ristabilisce il senso e il significato di ogni cosa in un mondo di ciechi, preda della babele, della dissennatezza, del capriccio, dell’arcano.
Un’idea di intellettuale a me cara – dicevo – come probabilmente a molti – consapevole tuttavia, che è ambiziosa, pretenziosa, persino ingenua, sicuramente velleitaria, che si scontra prima di tutto, e molto più semplicemente – al di là della mirabolante essenza stessa di un ideale di super uomo, di uomo-dio, che tutto sa, tutto capisce, tutto spiega, tutto illumina, tutto ristabilisce – con l’ingrata realtà – tutta umana – della coerenza. Altra idea a me cara. La coerenza che – come nei vecchi e saggi detti popolari – tutti la cercano e la bramano, ma nessuno sul serio se la piglia.
Pasolini era convinto di poter cambiare il mondo da dentro. Era convinto – a mio giudizio, s’intende, e per quel che conta – di poterlo fare seppure rimanendo completamente immerso, dalla testa ai piedi, come tutti i mortali, nella quotidianità di una realtà a cui nulla sfugge, che tutto tiene – talvolta magari con difficoltà, ma sempre con lucidità – sotto controllo. Pasolini era convinto di poter fare contro-cultura stando in pieno nella cultura, di poter operare controcorrente rimanendo nel pieno della corrente. Di andare contro, ma senza mai ingaggiare una lotta risolutiva, che l’avrebbe portato, questo, sì, e forse definitivamente, ai margini di quel mondo e di quella cultura che non amano affatto chi ne metta in ostinata e irriducibile discussione le regole del gioco.
La convinzione di Pasolini era la stessa di altri grandi pensatori dalla tragica fine. La stessa di Alda Merini. La stessa di Luciano Bianciardi. Ma l’autore della Vita agra la viveva in modo più controverso, più doloroso, più pudico, sino alle estreme conseguenze, nel momento in cui ha deciso che l’alcol costituiva l’unico possibile antidoto contro il dannato ma suadente richiamo delle sirene dei salotti bene della Milano degli anni Sessanta. Bianciardi non era Ulisse, ma che a quel dannato e suadente richiamo era di fatto impossibile resistere, ne era consapevole, lo sapeva – credo bene – sin dall’inizio della sua vita appena uscita dall’inconsistenza della moltitudine. Non lo sapeva altrettanto bene Luigi Tenco.
Tenco è andato a San Remo immaginando di poter cambiare le regole del gioco dell’industria culturale – a lui sostanzialmente aliena – di poter utilizzare la grande vetrina del Festival per eccellenza come cassa di risonanza del suo verbo poetico, come straordinaria possibilità di rivolgersi per la prima volta al grande pubblico. Un’occasione – a suo giudizio – storica, a cui guardava, quanto meno all’inizio, con grande favore. Sappiamo, purtroppo, come è andata a finire. Quando ha compreso che l’industria culturale l’avrebbe, nel caso, risucchiato come un potente Dyson, ha tragicamente deciso e commesso l’irreparabile.
Pasolini, no, sembrava non saperlo, sembrava vivere come se la cultura che lui stesso, con grande coraggio e competenza – questo non può essere sconfessato – contribuiva a produrre in modo significativo, lo liberasse dalle sue ferree regole del gioco, come se a lui tutto potesse essere assicurato, perdonato, finanche la loro stessa negazione. Varrebbe la pena di andare a rileggere alcune istruttive pagine del mirabile Calderón de la Barca. Pasolini era un re, si sentiva e si muoveva nel mondo dell’industria culturale come un re, ma aveva forse dimenticato che il re è il primo e più fidato schiavo del suo Stato. Aveva forse – chissà – sottovalutato che una cultura – oggi come ieri – contiene immancabilmente in sé i meccanismi di riproduzione del dominio, di un assetto che, per riprodursi uguale a sé stesso, non può che agire contenendo e, se necessario, opprimendo.
Dovremmo forse chiederci – insieme a Calderón – se una cultura – oggi come ieri – non abbia addirittura bisogno, per percepirsi come tale e continuare a esistere, di mantenere integro ai suoi margini uno spazio di non-cultura; una sorta di prigione d’oro dove, all’occorrenza, poter rinchiudere qualche straordinario, ingenuo e velleitario ribelle.
Pasolini era un intellettuale di sinistra, questo possiamo affermarlo senza se e senza ma, ma non un intellettuale organico, non un uomo a cui si potesse dire fai questo, scrivi questo, professa questo. No davvero. Pasolini era, sì, un animale politico a tutto tondo, ma non una pecora, piuttosto un leone abituato a vivere in grandi spazi e a viverli da re – come s’è detto – giammai da suddito. Era un uomo libero, seppure non scevro da incoerenze e contraddizioni. Del resto, come altrimenti? Come non esserlo, in un mondo aggrovigliato su sé stesso? In un contesto globale che sembra aver dimenticato, se non del tutto perso per strada, ogni doverosa riflessione sui limiti della razionalità umana e che – piuttosto che accettarli e farne tesoro – si sta preparando ad abdicarla, la razionalità, dico, come un sovrano oramai stanco e sconfitto, a metterla nelle mani di una razionalità superiore, che si racconta superiore, ma di cui nulla, forse, veramente sappiamo.
Pasolini era un uomo di sinistra, certo, ma consapevole di alcune lezioni d’Oltralpe, che il collettivo, la moltitudine porta quasi sempre, se non sempre, all’abbassamento della qualità e del livello di ragionamento. Era del tutto consapevole che il mestiere dell’intellettuale – se di mestiere è possibile parlare – è un mestiere non solo per pochi, ma soprattutto una condizione esistenziale che la solitudine non molla mai neppure per un secondo. L’intellettuale è un capo che vive di esempio, un direttore d’orchestra che rilegge gli spartiti di sempre, alla ricerca – come Calvino e Kundera a loro modo – seppur tra mille dubbi, della nota giusta, della parola giusta. La parola che crea realtà o che affranca dalla realtà.
Pasolini non aveva paura della realtà, così come non aveva paura del futuro, ma lui poteva permetterselo, perché da intellettuale serio, impegnato e vero qual era disponeva di una lente d’ingrandimento comune – come si diceva – a pochi. Oggi più che mai. Oggi che il ruolo dell’intellettuale – complici gli stessi intellettuali – ha perso ogni brezza di civiltà, oggi che l’intellettuale sembra essere stato morso da un serpente pericoloso e sconosciuto che non semina morte, ma un virus ancora più letale: il virus che porta all’obnubilamento delle cellule grigie, per dirla con Poiret.
Ho all’inizio confessato di non aver mai particolarmente amato Pasolini, e di aver scritto di lui poco o nulla, ma oggi, nel giorno della memoria di una fine prematura, insensata, sconvongente per i contorni di mistero che ancora l’avvolgono, rendo omaggio alla sua grandezza, mi tolgo il cappello di fronte al poeta corsaro, allo scrittore, all’uomo di cinema, al gigante che non c’è più. Purtroppo per lui, ma forse – ancor di più – purtroppo per tutti noi che – da questo mondo – guardiamo a lui con la tenerezza, la simpatia, la nostalgia, l’ammirazione e il rispetto che si devono a un Intellettuale con la I maiuscola. Riposa in pace – se puoi – caro Pierpaolo. Spero che da l’assù vorrai perdonare, in chiusura, il tono amicale.
Nella foto in alto, Pier Paolo Pasolini | Fotografia Aldo Durazzi. Agenzia Du foto © ALBERTO DURAZZI