La chiamano ormai “sagra”, anche se l’etimo deriva dal latino “sacrum” (sacro), perché la festa dei Santi Medici è anche fiera, mercato, cibo. Ma molto di sacralità questa festa conserva ancora, nonostante i tempi siano cambiati e la tecnologia sembra sommergere la quotidianità, lasciando poco spazio ad altra dimensione umana che è quella dei sentimenti, delle emozioni, del cuore.
La domenica dei Santi Medici, vuoi o non vuoi, è pervasa da un’aria di sacralità che si tocca con mano: è come se dovessi attraversare le strade, tagliando a fette quest’atmosfera diversa che ti circonda. A cominciare dal mattino presto, con il primo grande corale e festoso afflato umano nella piazza antistante la basilica, in attesa dell’ “apparizione dei Santi”.
Ed ecco un giubilo di colori, di voci festanti, di canti e grida. Ecco che, pian piano, si sgomitola una lunghissima processione di devoti, giunti d’ogni dove alla ricerca di quel contatto col sacro che lenisce ogni dolore e allevia le fatiche e le sofferenze dell’esistenza. Gente che cammina scalza, che fa il percorso con lo sguardo fisso rivolto alle sacre immagini: uno sguardo implorante e in attesa, intenso, in colloquio continuo, profondo, intimo con i Santi. Canti di invocazione e preghiera, suppliche e promesse si innalzano al cielo. È la devozione del popolo che in quest’occasione, in un contesto di gioia e pianto collettivo, manifesta la sua tensione verso l’Assoluto, verso il totalmente Altro.
Devozione? Fede? Qual è la linea di demarcazione? Chi vive profondamente l’esperienza del trasporto, in un modo o nell’altro esprime la sua fede che nel nostro caso non è quella dell’intelletto ma quella del cuore.
Oggi la festa dei Santi Medici appare l’affresco di un vissuto che, come nei tempi passati, si colora di sacro e di profano, di mestizia e di allegria, di miseria e di speranza, misticismo e fanatismo.
La marea di fedeli, che una volta inondava letteralmente la vecchia chiesa di San Giorgio, nel centro antico di Bitonto, nei giorni della festa era qualcosa d’indescrivibile. I pellegrini spesso arrivavano il sabato che precedeva la solenne processione.
Molti venivano con carri agricoli opportunamente attrezzati, altri a piedi dai paesi più vicini, portando con sé stendardi e labari identificativi. I più fortunati giungevano con la vaporiera che collegava Bari e Barletta. Tra i devoti non era difficile osservare persone che percorrevano in ginocchio tutto il tratto della chiesa fino al nuovo altare dei Santi Medici; qualcuno perpetuava l’antica e drammatica usanza di strisciare con la lingua sul pavimento.
La calca che si creava lungo via San Giorgio e nel piccolo spazio antistante la chiesa era soffocante. Molti finivano con il sentirsi male. Tanti preferivano non avventurarsi negli spazi ridotti delle vicinanze e nella stessa chiesa, e attendevano sulla via esterna alle antiche mura, allora l’extramurale, per partecipare alla processione.
Questa si avviava di buon’ora, preceduta dallo stendardo e dalla bassa banda: percorreva le vie della città, si addentrava nelle stradine del centro antico e rientrava spesso prima che le statue dei Santi Medici, dell’Angelo Custode e di San Lorenzo uscissero dalla chiesa. Nelle vicinanze di San Giorgio tutte le abitazioni si trasformavano improvvisamente in piccole botteghe, che vedevano impegnati parenti e amici dei residenti nella vendita dei santini, ricordi, quadretti e, in particolare, candele di tutte le dimensioni e di tutti i prezzi, offerte ai possibili acquirenti con il richiamo “Signò candele volete?”.
C’ era una vera e propria forma di abbordaggio verso coloro che si avvicinavano alla chiesa o che ne uscivano per partecipare alla processione. Si vendevano candele di tutte le dimensioni, candele che facevano bella mostra di sé sul muro della casa, trasformatasi in esercizio commerciale, appese con lo stoppino ad una serie di chiodi infissi su un asse di legno, tenuto alle pareti.
E il loro costo era condizionato dal peso. Le candele più grandi e pesanti erano trascinate, come lo sono ancora, da uomini che più si ritenevano debitori nei confronti dei Santi.
Già prima dell’uscita, con le statue già collocate fuori dalla nicchia, moltissimi fedeli si affrettavano a dare testimonianza del loro legame con l’offerta di doni di ogni genere: ceri, oggetti votivi, biglietti di banca di vario taglio in grande quantità, usanza eliminata alcuni decenni addietro. Le banconote erano fissate mediante spilli a dei nastri, pendenti dalle mani dei Santi. Durante tutto il tragitto della processione i portatori delle immagini sacre erano spesso costretti a fermarsi per attaccare ancora qualche grossa banconota ai nastri, che finivano col ricoprire buona parte dei simulacri, destando grande stupore agli occhi incantati dei fedeli.
Ma erano appuntati sugli abiti dei Santi Medici anche spille, anelli, collane, oggetti d’oro, offerti a titolo di riconoscenza per qualche grazia ricevuta.
Man mano che i fedeli terminavano il percorso della processione e tornavano alla chiesa di San Giorgio, consegnavano il moccolo della candela al personale preposto vicino all’altare dei Santi, ricevendone in compenso un’immaginetta degli stessi.
La cera era riversata a quintali in una botola che si apriva in un locale a fianco dell’altare, per riempire un vano sottostante e poi rivendersi ai ceraioli ed essere riciclata.
Al di qua della balaustra, all’interno del cappellone dei Santi, era collocata una grande lastra di lamiera con tanti boccagli pronti ad accogliere le centinaia di candele offerte dai fedeli che, appena accese erano subito tolte dal solerte sagrestano, per permettere alle altre e poi ad altre ancora di trovare posto.
L’importante era che la candela fosse accesa. Non mancavano, però, malumori con il solerte sagrestano per motivi facilmente intuibili.
Accanto alla folta presenza dei forestieri, nei giorni della festa la città era invasa da una folla mai vista in precedenza di un’umanità sofferente: storpi, ciechi, paralitici, mendicanti, anziani abbandonati, barboni. Si disponevano, coperti di stracci, a una certa distanza l’uno dall’altro lungo tutta via San Giorgio, quella maggiormente attraversata dai forestieri che si dirigevano verso la chiesa, mostrando le loro disabilità e chiedendo a gran voce l’elemosina.
E questo tra le grida degli astanti, dei venditori di candele e di souvenir, di oggettini con l’effigie dei Santi, di parti anatomiche in cera.
Il pellegrinaggio ai Santi Medici non si limitava alla partecipazione alla processione, all’offerta di qualche cero o altro oggetto votivo: se ora molti preferiscono bar e ristoranti, un tempo la visita a Bitonto comprendeva anche una bella scorpacciata di salsicce, un arrosto di “gnemerììdde”, accompagnati da provolone piccante o “fèrmagge pùnde”, cioè formaggio piccante fermentato con vermi, sedani, olive alla calce vendute in improvvisati cartocci. Il tutto accompagnato da generoso vino locale, che scorreva quel giorno in grande abbondanza.
Per venire incontro alle necessità di tanta gente, tutti i cantinieri del paese si improvvisavano osti. E a provvedere al desiderio legittimo di buon cibo non pensavano solo gli osti ma anche i salumieri e i macellai, che non si facevano scappare l’occasione per guadagnare qualcosa.
Ed ecco, mentre la processione sfilava, chi aveva già partecipato o altri che si accodavano all’ultimo momento, lì tutti seduti vicino alla chiesa di Sant’Egidio o sul largo di Porta Robustina, immersi in una nuvola di fumo d’arrosto a consumare con allegria quanto avevano ordinato. Ed era tutto giustificato per via dei disagi che avevano affrontato per venire a Bitonto e per la stanchezza della lunga processione. Terminata la quale, dopo un altro devoto ossequio ai Santi, la marea umana si disperdeva con traini, carrozze, macchine per chi poteva, trenino, lasciando la città, che per un giorno era stata letteralmente occupata, ai legittimi proprietari.
Tornavano a casa nelle viscere del centro antico, anche i “trusciandi”, molti dei quali avevano partecipato alla processione con vistose candele, mentre altri si erano limitati con il fatidico pianino a “vendere la fortuna”, a dispensare, a loro modo, speranza.
Le foto, tratte dalla pagina fb del santuario dei Santi Medici dui Bitonto, sono di Francesco Vallarella