La matrice del neofascismo italiano è l’ultima forma, “repubblichina” e memore dell’ispirazione “socializzatrice” del primo movimento del 1919, assunta tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 dal fascismo di Salò, barricatosi nel nord del Paese sotto lo schiaffo congiunto della Wehrmacht e degli Alleati. Metamorfosi finale del proteiforme regime mussoliniano, il cui DNA ha codificato una «sistematica violenza politica omicida e stragista», per riprendere il monologo di Scurati. Parole che, rievocando l’omicidio («alla luce del sole») di Matteotti nel 1924, hanno criticato l’ostentazione con cui la presidente del consiglio fa astrazione dall’«antifascismo». E che la Meloni ha prima fallito nel censurare, poi incorporato nel proprio discorso vittimario e digerito sul suo profilo social del nostro comune stomaco (altro che memoria!) digitale (leggi qui).
Dalle ceneri della Repubblica Sociale Italiana, da cui la lotta partigiana ci ha liberati al termine di una vera e propria guerra civile, rinasce già nel dicembre del 1946 il Movimento Sociale Italiano di Almirante: una forza politica che nel nome, nel programma e nel gruppo dirigente si professa postfascista. Una destra non genericamente successiva al fascismo storico bensì erede per via agnatizia di quell’esperienza.
Gli epigoni odierni di quella parte politica – fuori dall’«arco costituzionale» durante la prima Repubblica ma riabilitata da Berlusconi con la maggioranza del 1994 – ricoprono la seconda e la terza carica dello Stato e dominano un parlamento da tempo ridotto alla ratifica delle scelte dell’esecutivo e sfrondato dal referendum del 2020. In forza del buon risultato elettorale di Fratelli d’Italia (26%) del settembre 2022, drogato dal premio di maggioranza che ha regalato quasi il 60% dei seggi a un centrodestra con il 44% dei consensi. È la terapia cui ci ha assuefatti il Rosatellum: la «governabilità» come farmaco (vox media!) per la «crisi della democrazia rappresentativa». A riprova che la legge elettorale è la madre di tutte le riforme, come peraltro dovrebbe insegnare la “storia degli effetti” della legge Acerbo del 1924.
Sono questi gli snodi cruciali e gli espedienti istituzionali che hanno preparato il clamoroso salto di qualità davanti ai nostri occhi, che Luciano Canfora, filologo classico e storico di punta del panorama intellettuale italiano ed europeo, è tornato a denunciare in occasione della discussione del suo pamphlet Il fascismo non è mai morto (Edizioni Dedalo, 2024) al Teatro Traetta di Bitonto. Una diagnosi storica che non mira a delegittimare chi oggi è al governo in ragione della sua antica filiazione politica quanto semmai a mettere a nudo la logica antica che ne anima la volontà presente.
È evidente infatti – non ha difficoltà a sostenerlo lo stesso Canfora, che pure è rinviato a giudizio nel processo per diffamazione intentatogli contro dalla premier – che la Meloni, nata nel 1977, non può dirsi sinceramente nostalgica di un passato che non ha vissuto in prima persona: tanto il fascismo mussoliniano quanto il neofascismo che ha insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1975. (Giudizio che con altrettanta evidenza non vale per buona parte della famiglia allargata a capo di FDI e della sua base). E tuttavia la premier e i suoi gregari non perdono occasione per rivendicare fieramente, anche col clamore del silenzio, il loro anti-antifascismo. In nome di un fumoso antitotalitarismo, cui offre una precaria stampella la risoluzione europea del 2019 che equipara, in modo fuorviante, l’esperienza nazi-fascista e quella comunista nella memoria europea del Novecento. Semplicemente inaccettabile data la storia italiana.
Se si vuole decostruire la retorica che veicola l’orgoglioso rifiuto dell’antifascismo e il risultato politico cui ambisce, è utile intersecare la genealogia tracciata dal professore barese con quella ricostruita (per la prima volta) da Gabriele Pedullà, italianista di Roma Tre, e Nadia Urbinati, politologa della Columbia University, a partire dall’idea di afascismo. Nel loro recente saggio, Democrazia afascista (Feltrinelli, 2024), gli autori inseguono l’aggettivo «afascista» dal suo conio, (forse) dalla penna dello stesso Duce – che addita così quella silente maggioranza liberale che non si è schierata né a favore né contro la “rivoluzione fascista” ma, pretendendo di cavalcarla, ha di fatto consegnato passivamente (assieme al re, attivamente) il Paese alla dittatura – sino alla sua riemersione durante i lavori dell’Assemblea Costituente.
Già nei dibattiti costituenti del 1947, infatti, la parola si carica del significato e della funzione attuali nella richiesta del liberale monarchico Roberto Lucifero (nomen omen) – respinta da Togliatti e Moro – che la Costituzione sancisse sin dal suo atto di nascita un generale “diritto all’oblio”. L’antifascimo si è contrapposto al fascismo storico, ma il fascismo storico è morto una volta per tutte nel 1945; dunque anche l’antifascimo può, anzi deve, essere sepolto e dimenticato.
Il termine viene poi rilanciato nel dibattito pubblico negli anni Settanta dallo scrittore Giuseppe Berto, fascista in gioventù e poi vicino ad Almirante e alla “nuova destra” europea. È Berto a trarre la conseguenza ultima del paralogismo ripetuto dalla destra al potere: “chi fa l’antifascista in assenza di fascismo storico è oggi il vero fascista”. Che solitamente si conclude con un “Lo ha detto anche Pasolini!”. Un gioco, quello di reclutare ideologi incapaci di protestare dalla tomba, che nasconde come Pasolini, proprio mentre smascherava un antifascismo di maniera, d’élite e sganciato dalle sofferenze e dalle rivendicazioni dei ceti popolari, sia stato tra i primi a denunciare l’avvento di un nuovo fascismo, paradossalmente “democratico” ma ben più coercitivo: la società dei consumi.
Passando dalla storia dell’afascismo all’analisi idealtipica (approccio non privo di limiti), Pedullà e Urbinati indicano quattro tratti essenziali dell’«autocrazia elettiva» che la Meloni pratica nei fatti e minaccia di tradurre anche sul piano istituzionale (cominciando col presidenzialismo). Essa è avaloriale, perché riduce la politica alla scelta tra due “cartelli elettorali” post-ideologici – catch-all parties, come negli USA – ma innalza a valore supremo la forza di decidere di un leader. È ipermaggioritaria, perché usa le elezioni come strumento di acclamazione di una maggioranza – ma quasi 2 elettori su 5 non si sono espressi alle ultime politiche! – e del suo capo, che per i successivi cinque anni devono sentirsi liberi da qualsiasi opposizione in parlamento e nella società. È notabiliare, perché prende voti urlando contro la “casta” e gli “inciuci” parlamentari ma agisce come un’oligarchia di partito agli ordini del suo padrone. In definitiva, è aconflittuale: ripudia la conflittualità sociale e ne nega il potenziale generativo per le istituzioni democratiche – il conflitto interno è la radice della libertà e potenza delle repubbliche, insegna Machiavelli – col fine di ristabilire l’«ordine della gerarchia».
L’ordine politico costruito dalla «democratura» meloniana (limitando il diritto di sciopero, manganellando gli studenti, aggredendo le minoranze e intimidendo gli intellettuali) si fa così vettore dell’«ordine sociale del capitale». Che consiste – ci ricorda Clara Mattei, della New School for Social Research di New York, in L’economia è politica (Fuori scena, 2023) – nella prevaricazione e nello sfruttamento dei pochi, “meritevoli della loro ricchezza”, sui molti lavoratori, “unici colpevoli della loro povertà”. Negli anni Venti del XX secolo, gli economisti liberali hanno aperto la strada al fascismo per salvare il capitalismo italiano dalla sua crisi. Negli anni Venti del XXI secolo, il governo Meloni si rivela non una vittima dei “poteri forti” ma l’agente più recente della ristrutturazione neoliberista del nostro paese. Attuata secondo la logica dell’austerità, che non decide se lo Stato può spendere, ma per chi spendere! La stessa che i vertici politici e finanziari (non eletti) dell’Unione Europea hanno imbracciato per far pagare agli ultimi le spese della “Grande recessione” (2008-2013). Trauma da cui è nato, tra gli altri, il partito di “Giorgia”.
Facendo leva su un immaginario ridotto alla miseria (There Is No Alternative) e un senso d’impotenza indotto, la destra al potere si oppone, infatti, con ferocia agli effetti equalizzanti della nostra Carta: all’art. 3, alla liberazione da quelle condizioni materiali che mutilano di fatto la vita pubblica e privata dei cittadini. Al concreto programma d’azione della nostra Costituzione antifascista, già bersaglio polemico del Rapporto del 1975 della Commissione Trilaterale. Cinquant’anni fa, La crisi della democrazia (Franco Angeli, 1977), il politologo americano Samuel P. Huntington, il francese Michel Crozier e il giapponese Joji Watanuki non avevano dubbi sulla causa della disfunzione della forma peculiare di democrazia vincente nel blocco occidentale, quella “decidente”. Responsabile della «crisi di governabilità» era esattamente l’«eccesso di democrazia» insito negli ordinamenti parlamentari sorti programmaticamente come reazione ad un passato fascista e liberticida. Era questa la radice dell’anarchia, del rifiuto dell’autorità che eccitava i movimenti di protesta per i diritti civili e di contestazione del militarismo, le lotte sociali dei sindacati e dei partiti socialdemocratici.
Ecco svelata, attraverso lo sguardo dei suoi lucidi avversari, la logica della nostra Costituzione. La democrazia è sempre eccedente perché è uno sforzo incessante di democratizzazione. Ed è qui il suo nucleo conflittuale incarnato dall’antifascismo: la carica emancipatrice e l’ineludibile prova di verità della nostra Carta. La democrazia non è il “destino manifesto” dell’Occidente a trazione statunitense e nemmeno un’aspirazione naturale dello spirito umano, come peraltro rende tristemente chiaro lo scellerato tentativo di esportarla con le armi. Essa è piuttosto, a monte e a valle, un evento essenzialmente raro. È l’esito storico di lotte d’emancipazione – decise dai rapporti di forza tra chi se la passa male e chi fa profitto sul male dei più – per includere tra i diritti costituzionali e intensificare nella vita quotidiana quei diritti che spettano ad ogni uomo in quanto tale ma non ancora riconosciuti o effettivamente garantiti ai cittadini. Senza alcuna gerarchia di valore. E resta, anche una volta istituzionalizzata, un accadimento costitutivamente fragile: si dà democrazia solo in determinate condizioni materiali e “spirituali”, in certe pratiche discorsive, etiche ed ecologiche.
Un esempio di come la Costituzione del 1948 è ancora in grado di rispondere alle urgenze dell’agenda politica della nostra generazione? Liberandoci dagli usi illegali delle nuove tecnologie digitali, basate sull’estrazione e la rapina di dati personali e risorse ambientali, che violano clamorosamente i nostri più basilari diritti costituzionali. Sarà un caso, infatti, che le aziende private che trainano il ruggente capitalismo della sorveglianza (da Microsoft a Meta, da Apple ad Amazon) siano gli alfieri della retorica del “vuoto legislativo”? Ma siamo davvero così impreparati davanti all'”eccezionalità” dell’intelligenza artificale? O fingerci in un punto zero dei diritti serve a spalancare praterie a chi fa soldi vendendo le tecnologie più avanzate a poteri anti-democratici e guerrafondai?
Nell’immagibne in alto, i lavori di restauro del celebre dipinto “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo. Foto di @margherita__gnaccolini (tratta da 055 Firenze)