Non è mai facile parlare del rapporto genitori-figli, specie quando questi ultimi si apprestano a lasciare il microcosmo ovattato della fanciullezza per affacciarsi gradualmente nella società che conta. Un allontanamento concepito dai genitori come un trauma e dai figli, al contrario, come impulso alla vita; una svolta nella crescita e nella maturazione dell’io votato ad una più definitiva autonomia, pronto a tracciare la rotta del proprio cammino solcando sentieri impervi e scoscesi senza una mano rassicurante che gli indichi la strada.
La dura legge della crescita comporta numerosi inciampi, capitomboli, ruzzolate di lunga o breve durata, salti, scavalcamenti e capriole. Un’evoluzione che comporta un duro prezzo da pagare non solo per chi vive su di sé il cambiamento, ma anche per coloro che – osservando la metamorfosi dall’esterno – vengono improvvisamente depredati di una parte di sé, di una loro creazione che hanno finora accudito, protetto e amato.
La madre, capolavoro del drammaturgo francese Florian Zeller, approdato recentemente al Teatro Comunale di Corato e al Piccinni di Bari – tra le ultime tappe di una lunga e fortunata tournèe con la regia di Marcello Cotugno nei teatri di tutto il paese – s’incardina proprio su queste tematiche, indagando il complesso, difficile e persino tortuoso mondo delle relazioni che legano la madre al proprio figlio. Portato in scena a Parigi nel 2010, La mère (La madre) è il primo capitolo di una trilogia teatrale che Zeller, drammaturgo, scrittore e regista dedica al tema della famiglia, e che comprende anche Le Père (Il padre) del 2012 e Le fils (Il figlio) del 2018.
Il rapporto madre-figlio – come mostra la pièce – si connota per l’assenza di dialogo e di empatia, trasformandosi in un’asfissiante dipendenza e subordinazione da cui il figlio tenta di fuggire. Difficile stabilire chi tra i due abbia ragione, poiché i loro mondi sono inconciliabili. Siamo stati tutti figli: il pensiero di ogni genitore quando i ragazzi escono di casa cela ansia, preoccupazione nonostante la consapevolezza di dover accordare loro quella libertà che serve a dipingere nuovi fascinosi orizzonti. Una consapevolezza che nasce dall’aver vissuto la stessa condizione come figli in un lontano passato ma che, nell’oggi, viene spesso rimossa dalla “necessità” di ricoprire un ruolo superiore, imponendo le proprie scelte e inglobando i figli in sé, quasi fossero una parte del proprio corpo che non si è mai totalmente staccata. Così se le ragioni dei giovani risultano compatibili con l’innato desiderio di autonomia che si rafforza con il passaggio all’età adulta, altrettanto “comprensibile” resta l’insofferenza della madre dinanzi “all’abbandono”.
Anna (Lunetta Savino) è la madre che custodisce già nel nome il seme della dolcezza. Un palindromo dal tintinnio carezzevole che suona soave all’udito, un nome dall’economia circolare avente inizio e fine indissolubili, quattro lettere dondolanti su un filo che le tiene unite. Quel filo al quale vorrebbe legare anche il destino di un marito assente (Andrea Renzi), già nel bel mezzo di una relazione con un’amante, e dei figli: Sara, un personaggio evanescente solo menzionato, che ormai non ricorda più dato lo spontaneo allontanamento dall’ambiente che l’ha vista nascere, e Nicola (Niccolò Ferrero), il prediletto secondogenito, che di tanto in tanto adempie ai doveri di figlio ma solo per un personale tornaconto, quando la sua storia d’amore con una seducente ragazza di città, la bellissima Chiarastella Sorrentini, naufraga.
Anna è una timida eco di ricordi lontani, struggimento e tenerezza, equilibrio e semplicità, il principio da cui tutto si origina fino a concludersi. La madre che culla nel suo grembo il nascituro e lo mette al mondo. Quel mondo che non resta spettatore passivo del legame inscindibile tra i due, ma corre a reciderlo alle soglie della maturità. In quell’istante il dramma del distacco grava sulle spalle di una donna in età avanzata, che guarda trafelata il dipanarsi della sua esistenza rifugiandosi nei sonniferi e nell’alcol, ma che conserva ancora i tratti di una madre premurosa nei confronti di un figlio ormai adulto, dimentico del rapporto simbiotico instaurato con lei durante la fanciullezza.
Un’amorevolezza che sfocia in convulsa ossessione, trasformandosi progressivamente in cieca mania di controllo e poi in asfissia. Ad un figlio che supplica per la sua autonomia “si oppone” una madre che giace abbandonata a se stessa, renitente ad accettare che l’amore è un eterno fluire, la cui potenza si misura con la libertà, con il lasciar andare… senza pretese né compromessi. Una donna che commuove e al contempo fornisce stimoli utili per emanciparsi dal nido familiare e soprattutto dall’afflato materno.
Zeller sceglie un epilogo non casuale per la rappresentazione del suo dramma. Una sorta di contrappasso metaforico esemplificato da un’eloquente gestualità: l’abbraccio sincero che la madre implora al figlio si traduce nel tentativo di strangolamento da parte di quest’ultimo. Un grido di protesta, una mancanza d’aria, un’asfissia, un’oppressione da cui Nicola si sgrava solo con il ricorso ad un estremo e simbolico atto perpetrato ai danni di sua madre. Avrebbe auspicato un finale migliore Anna, la splendida Lunetta Savino che adotta il pubblico di un teatro gremito fungendo da madre per una sera.
L’abilità di Zeller sta nell’offrire allo spettatore un’ulteriore conclusione, ben al di là di un epilogo scontato. Se la realtà vanifica i propositi di ricongiungimento messi in atto dalla madre nei confronti del figlio, è la salvezza immaginifica a premiare i tentativi di costei. Sulle note di Senza fine di Gino Paoli, cala il sipario sulla vicenda umana della “madre” che con aria trasognata si unisce al figlio in un valzer di doloroso addio, non prima di ricevere una rosa come pegno di un amore tormentato.
Le foto della pièce “La madre” sono tratte dal portale Teatro.it