Pietà e terrore. L’apoteosi del tragico. Il pensiero aristotelico che riecheggia sussurrando. Un sussurro costante che non resta ancorato al secolo in cui la sorte gli ha arriso, ma procede al galoppo, catapultandosi nella narrativa del primo ‘900. Quell’inquietudine che attanagliava eroi ed eroine del teatro greco fino a sfociare miseramente in autodistruzione fisica e morale, costituisce il fondamentale caposaldo attorno al quale i romanzieri, agli albori del XX secolo, architettano l’impalcatura di un racconto popolato da creature in preda ad una convulsa irrequietezza d’animo; smaniosi di addentrarsi negli anfratti reconditi della magia e dell’esoterismo, affascinati dall’ignoto e dal mistero, impavidi nell’ispezionare arcani sentieri escatologici, anche quelli meno percorribili tempestati dalla presenza del maligno.
Elementi che si caricano di una potenza evocativa maggiore nel capolavoro di Brjusov intitolato L’angelo di fuoco, da cui Sergej Prokof’ev trae ispirazione per musicare l’opera omonima, rimodulando il finale. Se il racconto del poeta simbolista, scritto per difendersi dalle accuse di Bugaev che lo volevano legato all’amante di quest’ultimo, chiosa con il ristabilimento dell’ordine nonché con la riconciliazione tra i due contendenti, il compositore russo desidera rimuovere un finale privo di forti scosse emotive, come quello proposto dal collega Bugaev, sostituendolo con un epilogo sanguinario posto a coronamento di un dramma a tinte fosche incentrato sulla possessione demoniaca della protagonista.
Suggestioni che permeano l’Angelo di fuoco in scena al Teatro Petruzzelli, ridipinto dal tocco registico della regina del dark, Emma Dante, dalla superba prova orchestrale affidata a Jordi Bernàcer e dalla performance del coro di voci femminili. L’eclettica regista palermitana conduce il pubblico nel baratro dell’oscurità, per assistere alla travagliata vicenda esistenziale di Renata, la fanciulla che dopo essere stata avviata alla vita monastica dal bellissimo corpo luminoso di Madiel si innamora di quest’ultimo, ignara della sua vera entità, nutrendo per lui un pernicioso desiderio carnale. Un antefatto silente, non portato sulla scena, ma che offre alla narrazione in cinque atti robuste radici su cui saldarsi. Le note della vibrante e tenebrosa ouverture scorrono simultaneamente al sollevamento del sipario, dove l’occhio viene quasi “tramortito” dall’effetto immediato del chiaroscuro, grzie al gioco calibrato di colori caldi/freddi. In quella che dovrebbe essere la squallida soffitta di una locanda della Germania del XVI secolo, ma che in verità conserva più l’aspetto di un’area cimiteriale ripartita in nicchie e sepolcri, si consuma l’ossessione demoniaca di Renata consolata da Ruprecht, disposto a salvarla da ogni nefandezza dell’anima.
La giovane si dimena senza tregua; urla per poi giacere sfinita a terra. La sua sfrenata gestualità ben si accorda con le giravolte e le capriole di un ballerino break dance (Alis Bianca) dai capelli impomatati e raccolti in un’enorme cresta, le cui braccia la attorniano senza scampo come possenti spire. Il suo ruolo, pur nella sua mutevolezza, non rimane marginale ai fini della trama, ma si dispiega parallelamente alle azioni dei due protagonisti, lambiti sempre più nel turbine demoniaco. Egli è il Diavolo che, assolvendo alla funzione di tacito comprimario, incede sulla scena a passo felpato e non esita ad agguantare la sua preda, inerme dinanzi ad uno spirito invisibile che si contorce a testa in giù fino a lambire la sua corporeità. Alla vorticosa danza del maligno si accompagnano talvolta i movimenti di un suo adepto, che sembra emulare le movenze del suo Dio, cimentandosi in un coreografico passo a due. Un’ampia varietà di cromatismi contrasta la cecità della luce, ricercata attraverso i sobri costumi di scena color pastello e l’eleganza marmorea di una pietra algida, che corrobora l’obnubilamento spirituale cui i personaggi vanno incontro segnando uno snodo fondamentale nel passaggio dalla vita alla morte, dalla salvezza alla perdizione.
La genesi del colore si sviluppa e muta nei quadri successivi, dove al turbamento interiore di Ruprecht e Renata fa da sfondo una grigia Colonia. Anche in questo caso lo splendido fondale scenico permette allo sguardo di posarsi su una grande biblioteca, i cui libri non sono necessariamente impilati sugli scaffali ma si trovano sparpagliati in tutto l’ambiente, quasi a voler richiamare l’inestinguibile desiderio di conoscenza perseguito dal filosofo. Il luogo diviene teatro di studio della magia, declinata nelle molteplici branche di discipline cabalistiche ed esoteriche. Lontano da occhi indiscreti si svolge l’affannosa e vana ricerca di Ruprecht sullo spirito impadronitosi delle facoltà intellettive di Renata, mediante la consultazione dei testi di magia proibiti portati dal libraio Glock e gli insulsi vaticini del filosofo Agrippa di Nettersheim. Indagini che cadono nella vacuità, ma sono paradossalmente utili a segnalare la presenza di un’entità impercettibile che vaga in contiguità dei loro spostamenti, seminando tracce presaghe della sua esistenza in risposta allo scetticismo di Ruprecht, interpretato dalla possente voce del baritono Ramaz Chikviladze, circa la sua perfidia.
All’interrogativo del cavaliere, Renata non ha il tempo di controbattere: la pervicace forza del demone irrompe con tre colpi scagliati sul pavimento che lo spettatore ha solo la possibilità di udire. La fanciulla sobbalza quando crede di aver individuato il bellissimo Madiel nel conte Heinrich, da cui viene brutalmente respinta, invitando Ruprecht a sfidarlo in duello che certifica l’innocenza di Heinrich. Nel cambio di scena si susseguono strani mimi, dall’andatura stramba o dall’irrimediabile zoppia; goffi, bizzarri, relegati alla dannazione eterna che schiudono le porte ad altri due stravaganti personaggi di dubbia moralità. Faust e Mefistofele i due diabolici ciarlatani minano la tranquillità di una locanda, dove l’incubo del maligno aleggia nelle loro terribili figure che si cimentano in esperimenti prodigiosi: Mefistofele giunge a punire un garzone negligente che al suo tavolo non serve il montone e del buon vino, divorandolo in un boccone e facendolo ritrovare sano e salvo in un secchio di spazzatura.
L’abilità di Sava Vemić (Faust) e Mert Süngü (Mefistofele) va ben oltre i comprovati requisiti canori di basso e tenore. Essi dimostrano doti di istrionici animali da palcoscenico, sfilando con chiome arruffate e volti camuffati dal vistoso makeup, mani insanguinate e stivaletti rossi. Stregoni che intervallano la scena con i loro futili espedienti o gregari di Madiel, il bellissimo angelo tramutatosi in colonna di fuoco? Una domanda rimasta aperta, cui lo spettatore non sembra dare il giusto peso, poiché l’improvviso cambio di scena lo avvolge già in una nuova dimensione.
Un contesto d’ascesi e di preghiera, in cui fin dalla tenera età Renata aveva recluso il suo sogno di adempiere ai doveri e sacrifici della vita monastica. Il blocco marmoreo, utilizzato per gli ambienti di una cupa soffitta, torna in scena amplificato. Le numerose nicchie allineate nel registro superiore ed inferiore della pietra ospitano novizie dalle lunghe tuniche rosse con un’imponente croce centrale. Qualcuna, già divincolatasi dal posto di appartenenza, si reca ai piedi di una grossa croce che sporge dalla nicchia centrale più pronunciata. Il Cristo raffigurato non ha le fattezze di uomo venuto sulla terra per redimere il mondo dal peccato, ma le sembianze di un corpo in consunzione, con un enorme scheletro che cade penzoloni al posto del capo. Una distopia non indifferente foriera di un funesto presagio: il monastero è contaminato da una forza demoniaca, penetrata nel sacro luogo con l’arrivo di Renata. A nulla servono i tentativi di un esorcista, il talentuoso Byung Gil Kim, che nei panni di Inquisitore sentenzia la fine di Renata brandendo un’enorme croce per allontanare il maleficio. L’indiscussa eroina tragica, il soprano Madina Karbeli, nel ruolo della temeraria fanciulla Renata che ha osato impavidamente sfidare il destino perendo rovinosamente sotto i suoi colpi, incede mesta con un chitone nero e un velo che le cinge il capo. Sul petto un cuore dorato trafitto da pugnali. La mano tremula della giovane regge l’elsa del pugnale mortifero, in attesa che Madiel, l’angelo dalle ali celesti e raggianti, sua dannazione e suo tormento, lo conficchi nel suo petto.
Il finale rutilante, intriso di pathos, lava l’anima dalle macchie del peccato carnale attraverso una catarsi che ristabilisce l’ordine precostituito. Un ordine al di là del quale non è possibile valicare e che, malgrado la sua ineffabilità, offre al pubblico la capacità di discernere il bene dal male. Saziare gli appetiti passionali non è stato mai considerato edificante per il cammino di rettitudine morale intrapreso dall’uomo. La sua esistenza è costellata da pericolosi limiti oltre cui non può spingersi, dinanzi ai quali può solo acquietarsi e continuare a perlustrare con serenità la sfera del conoscibile senza pretese e senza eccessi.
Le foto de “L’Angelo di fuoco”, in scena al Petruzzelli sono di Clarissa Lapolla