S’alza su Il sol dell’avvenire il sipario della nuova giornata del Bif&st. L’ultimo Moretti sembrava meno incisivo; come se avesse perso il focus, qualcosa di davvero importante da comunicare. Penso a Tre piani, in particolare, e a quelle storie che mi parevano così lontane, ormai, dal suo stile. Rischiavo di unirmi al coro dei nostalgici e, sospirando, affermare con tono languido: “Quanto mi manca il Moretti di Bianca o Palombella rossa!“. Ma fortunatamente, non è stato così.
Ho visto per la prima volta questo straordinario film di Moretti, un regista che ho sempre adorato e che mi ha formata, “plasmando” il mio modo di essere, e ne sono stata felicissima. Potrei addirittura asserire che sia il mio film preferito, più di Caro diario o Ecce bombo, con la sua straordinaria battuta “ciao, volevo dire se potevamo vederci per innamorarci di me“, uno dei suoi must in fatto di arguzia.

Ma torniamo a questa sua ultima e bellissima pellicola. Moretti decide di tornare indietro, di ripercorrere i tratti salienti del suo cinema. Si vede un po’ di Bianca, di Palombella rossa, di Ecce bombo, i titoli che l’hanno reso famoso, chiaramente identificabile in Italia e all’estero. Troviamo il Partito comunista italiano e quella straordinaria utopia del comunismo, a cui il regista – come tanti altri – proprio non riesce a rinunciare.
Eppure, allo stesso tempo, con le sue canzoni, tutte rigorosamente italiane, Moretti si domanda come nasca l’amore, come faccia ad evolversi. Come quelle coppie, che stanno insieme da tanti anni, riescano ad amarsi ancora, ad andare avanti nonostante tutte le difficoltà quotidiane. Come si riesce a comunicare, dopo tanti anni, dopo che l’individuo è inevitabilmente cambiato. Come ci si può voler bene, anche quando i torti reciproci divengono troppo grandi. E – sembra chiedersi il regista, in quello che è anche un elogio alla sua Roma – come fanno alcuni a lasciarsi dopo tanto tempo, dopo tutte le cose che si sono vissute. Come si fa a dire addio a chi si è amato tanto.

Tutte queste riflessioni divengono motivo di racconto; un racconto che sembra confusionario, ma che ci permette di entrare nella mente del regista-protagonista, Giovanni (interpretato da Nanni Moretti, suo perfetto alter ego), e del lavoro che vorrebbe girare. Un film che prende tutt’altra direzione rispetto ai programmi, divenendo un inno alla vita, all’amore, alla gioia di vivere e sbagliare. “Moretti fa anche una panoramica di quello che è il cinema oggi“, spiega Alberto Crespi, direttore della rivista Bianco & Nero, che dedica il numero di questo quadrimestre al nostro, in concomitanza con il Bif&st. “Netflix, produttori stranieri, accordi con l’Europa che vengono a mancare, ma allo stesso tempo – ironizza sul cinema italiano di oggi – film che parlano di violenza, mafia, rapine. E tutta questa violenza non ha nulla di ripugnante, è quasi attraente per lo spettatore. Lo intrattiene e lo rende insensibile“. Vi è un momento in cui Moretti cerca di spiegare ad un giovane regista che non può girare la scena finale del suo lungometraggio come sta facendo. C’è un uomo in piedi con una pistola, che ammazza un uomo ferito, sanguinolento e in ginocchio ai suoi piedi. La scena non inorridisce, ma attira l’occhio dello spettatore. E pur di convincere il regista, chiama Chiara Valerio, che si presenta sul set, Renzo Piano, che risponde dalla sua stanza, e perfino Scorsese, cui lascia un messaggio in segreteria.
“Una delle scene più belle a mio parere“, commenta Barbora Bobulova, insignita del ruolo di migliore attrice non protagonista dell’anno, secondo la giuria di critici del Bif&st. Il premio intitolato ad Alida Valli le sarà consegnato stasera sul palco del Petruzzelli. “Quando Nanni Moretti mi ha chiamato per fare il provino, io stavo passando un momento difficile della mia carriera – racconta l’attrice – probabilmente perché ero in una fase che attraversano molte attrici giunte a una certa età. Pensate che mi fu proposto persino di interpretare una nonna! Insomma, un periodo di buio dopo il quale Nanni ha rappresentato la luce“.
Non si trattava, però, del primo provino dell’attrice con il regista: “Ne avevo già fatto due in passato con lui, per ‘Il caimano’ e per ‘La stanza dei figlio’, e quindi non mi facevo molte illusioni. Però stavolta pensavo che quel personaggio avrei dovuto assolutamente farlo, c’erano tanti aspetti in comune con me. L’unica cosa che mi disse fu che io dovevo interpretare un’attrice un po’ rompiscatole ma simpatica. A quel punto diversi colleghi mi misero un po’ d’ansia, spiegandomi come Moretti sia un regista che mette soggezione. Ma io mi sono trovata molto a mio agio con lui, mi sono sentita come accudita” racconta, senza nascondere una certa commozione.

Enrico Magrelli, che ha moderato l’incontro, ha ricordato come Bobulova abbia debuttato in Italia con Marco Bellocchio, da protagonista femminile di Il principe di Homburg, quando aveva solamente quindici anni.
“A quell’epoca, il 1996, vivevo a Bratislava e studiavo recitazione. Avevo iniziato a recitare a 12 anni e a 14 avevo già avuto un ruolo da protagonista in un film ceco, ‘Pendolari’, che fu invitato al Giffoni Film Festival. Era la mia prima volta in Italia, non capivo la lingua, mai avrei pensato che un giorno sarei diventata italiana. Ma qualcosa era scattato in me” ricorda l’attrice. “Infatti, ci sarei tornata qualche anno dopo per prendere parte a un lungometraggio per la tv e qui fui notata dalla responsabile del casting che era la stessa di Bellocchio, la quale mi segnalò giudicando che fossi adatta per il ruolo. Mi fece quindi venire a Roma per il provino che superai. Tornata a Bratislava presi la decisione di trasferirmi definitivamente in Italia“.
Un amore, quello di Bobulova, che non si è ancora estinto e che non si estinguerà mai, nonostante tutte le difficoltà che spesso incontra come attrice.