La guerra di ieri per riflettere su quelle di oggi

Con "Alone in Berlin" di Perez, il Bif&st torna a denunciare l'atrocità dei conflitti d'ogni tempo e a indicare nelle minoranze una possibilità di riscatto

Al quinto giorno, il Bif&st mostra un altro film sul secondo conflitto mondiale. Dopo Lubo di Giorgio Diritti e la La notte di San Lorenzo, tributo a Paolo e Vittorio Taviani, al Petruzzelli è in programma Alone in Berlin (Lettere da Berlino), pellicola del 2013 di Vincent Perez.

Ancora una volta sullo schermo la resistenza degli umili, di poveri operai che si barricano all’interno di un palazzo per non finire nelle grinfie del nemico, e la loro ribellione, nel momento in cui è chiaro che i guai ci vengono a trovare anche quando non siamo noi a cercarli. La storia sceneggiata dallo stesso regista insieme ad Achim e Bettin von Borries, è tratto dal libro di Hans Fallada, Ognuno muore solo (Der Alpdruck e Jeder stirbt für sich allein) e si basa sulla vicenda di due persone realmente esistite: Otto ed Elise Hampel. Solo il nome della moglie è stato cambiato nella pellicola.

Due umili operai, Otto e Anna Quanguel, interpretatati da Brendan Gleeson ed Emma Thompson, che perdono il figlio, Hans (Louis Hofmann), mentre combatte al fronte, finito al macello insieme a tanti altri giovani. Il dolore per la perdita è terribile, ma serve a convincere i due genitori a mettere in atto una protesta nei confronti del governo, usando lettere, cartoline, perfino pezzi di cartone per denunciare il regime e la sua crudeltà. Otto scrive dei messaggi chiari e concisi, utilizzando dei guanti per non lasciare impronte e camuffando la propria calligrafia per non destare alcun sospetto. 

Entrambi diffondono cartoline anonime, in diversi quartieri di Berlino, lasciando che i passanti le trovino. Vogliono risvegliare la coscienza assopita del popolo tedesco e porre fine al governo nazista. Uno dei messaggi che diffondono riguarda proprio la morte del figlio: “Madre, il Fuhrer ha ucciso mio figlio e ucciderà anche il tuo“. Ma non tutti si mostrano commossi o indignati e qualcuno consegna le cartoline e le lettere alla Gestapo, affinché possa risalire agli autori. Viene incaricato di trovare i traditori, l’ispettore Escherich (Daniel Brühl), che lavora sulle loro tracce per due anni. E alla fine riesce a trovare Otto, dopo una serie di errori e false piste, per colpa dei quali a lasciarci la pelle sono degli innocenti.

Otto viene arrestato: lo interrogano e scoprono il coinvolgimento della moglie. La coppia viene condannata a morte, ma quelle lettere – quasi 300 – hanno creato una strana consapevolezza nell’ispettore Escherich, che compirà un gesto inatteso nel finale del film, forse mosso a compassione dalla fine dei coniugi oppure perché illuminato dalle verità che diffondono sulla dittatura che governa la Germania in quegli anni. Si uccide con un colpo di pistola che riecheggia nella stradina e lancia le lettere dalla finestra, attirando l’attenzione dei passanti. Che iniziano a leggerle, facendo presagire al pubblico che possa essere l’inizio della rivolta contro Hitler. “Visto il film, e considerate tutte le pellicole che abbiamo avuto modo di visionare dall’inizio del festival, non possiamo che pensare al presente. Alla guerra in Ucraina, ma ancora di più al conflitto sulla striscia di Gaza – commenta Felice Laudadio, il direttore del Bif&st, dialogando con il regista svizzero Perez – nel quale sembra che le vittime siano diventate i carnefici“.

Per il suo ultimo film Une affaire d’honneur, che sarà presentato stasera in anteprima internazionale al Petruzzelli, l’attore e regista riceverà il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence dalle mani di Francesca Fabbri Fellini, nipote del grande regista. “Sono onorato di ricevere il premio, ma ancora di più di rivedere ‘Lettere da Berlino’, cui sono molto legato, in un teatro così bello e gremito” dichiara Perez commosso. “Io sono nato e cresciuto in Svizzera ma da padre spagnolo e da madre tedesca. Già da ragazzo, ho avvertito l’esigenza di fare delle ricerche sulle radici della mia famiglia, soprattutto sugli aspetti relativi al periodo della seconda guerra mondiale. Nel tempo, la mia ricerca si è arricchita con la lettura di diversi libri e a un certo punto mi sono imbattuto nel romanzo ‘Ognuno muore solo’ di Hans Fallada” racconta.

Il film, così come il libro, diviene un pretesto per raccontare la sua storia personale. Prosegue: “Nel libro ho trovato delle vicinanze con le storie dei miei nonni e dei miei genitori, anche del ramo spagnolo visto che mio nonno era antifranchista. In Germania, invece, un mio prozio fu deportato ed è morto in una camera a gas. Pensando al film, ho quindi ho avuto la possibilità di capire qualcosa di più della mia famiglia e della mia discendenza. Mi piaceva l’idea del contrasto che c’è nel libro tra la guerra lontana e la quotidianità a Berlino, dove pure viveva una coppia che con i suoi piccoli gesti, dimostrava comunque un enorme coraggio“. Inizialmente, Perez voleva girare il film interamente in tedesco, poi invece ha pensato che avrebbe avuto una diffusione più ampia se il cast avesse annoverato attori inglesi. “Era accaduto, inoltre, che il romanzo, pur se pubblicato in Germania nel 1947, è stato edito in inglese solo nel 2010 e fu un enorme successo internazionale. In virtù di un così grande clamore, i produttori mi hanno consentito di fare il film solo se interpretato da attori celebri che parlassero, appunto, in inglese”, spiega il regista. 

Emma Thompson ha accettato subito: con lei si è creato un grande feeling come anche con Brendan Gleeson che andai a incontrare a Dublino dopo che l’attore previsto per la parte mi era stato rubato da Steven Spielberg. Con Daniel Brühl scoprimmo che anche lui è nato da una famiglia metà spagnola e metà tedesca, una curiosa coincidenza che non si verifica spesso nell’ambiente del cinema“, racconta. Eppure, nonostante il grande successo del film, oltre i confini della Germania, al Festival del Cinema di Berlino non ha ricevuto l’accoglienza sperata, purtroppo a causa del cast: “L’accoglienza fu disastrosa, il pubblico e la critica tedesca non apprezzarono che avessi scelto un cast straniero, con gli attori che interpretavano tedeschi ma che parlavano in inglese. È stato il momento più difficile della mia carriera, ne ho sofferto molto. Volevo lasciare tutto“.

Eppure, ad un certo punto, durante la rassegna sul cinema ebreo ad Atlanta, negli Stati Uniti, una signora, al termine della proiezione, prese il microfono e chiese al regista: “Monsieur Perez… e si fermò, mentre io ero in grande apprensione. Poi riprese: ‘Cosa possiamo fare perché il mondo intero possa vedere questo capolavoro?”. Il regista, finalmente, si sentì rinato e quello fu l’inizio di una nuova fase della sua carriera: “Da quel momento in poi, sono sicuro che il mio cinema sia migliorato. Ed è anche per quella signora che oggi sono qui. Non potrò mai ringraziarla abbastanza“, conclude.

In alto, Vincent Perez sul palcoscenico del Petruzzelli