Dal “campo largo” al “campo comune”, la semina è più utile

Le recenti vicende elettorali confermano che ciò di cui il centrosinistra ha bisogno è ritrovarsi sui contenuti piuttosto che sulle alleanze "contro"

Il giornalismo contemporaneo è affascinato, coinvolto come tutti noi dalla necessità di sintesi e di slogan, da “formule magiche” che rimandano a concetti-guida non sempre chiari. È ciò che accade anche per l’espressione “campo largo”, molto in voga nell’ultimo periodo per definire tutto quello che si muove, elettoralmente parlando, al di qua della compagine di governo formata da Fdi-Lega-FI.

In un Paese di venti regioni, dove si celebrano elezioni regionali ogni venti giorni, siamo così costretti ad affrontare il tema in salsa sarda, abruzzese o lucana in attesa della tornata amministrativa ove verrà declinato in ogni dialetto locale. Con la serie inevitabile di analisi, sondaggi e opinioni di sostenitori o avversatori del fenomeno.

Al di qua del “decumano” che divide la sinistra dalla destra – per dirla alla Ghali una “linea immaginaria” che tuttavia esiste e tocca le nostre vite di lavoratori, donne e cittadini – l’impressione è che il problema sia mal posto perdendo di vista il punto focale. Il “campo largo” non vive grazie alla sua estensione. Non “esiste” grazie al suo fine, che è quello, diciamocela tutta, di non far vincere le destre. Non basta “dirlo” per farlo nascere. A gran parte degli attuali dirigenti nazionali questo sfugge, laddove viene mirabilmente invocato da ex leader delle sinistre che appaiono in qualche trasmissione televisiva: ieri sera, Veltroni e Bindi.

A sinistra non si ha bisogno di un “campo largo” ma di un campo da “coltivare”, un campo “colto”. Un campo su cui seminare per avere domani frutti. E per fare questo mi pare che in questo momento vi siano due ostacoli principali. Il primo: ciascuna forza politica a sinistra ha da tempo parzialmente rinunciato a definire se stessa attraverso il confronto interno, preferendo affidarsi al capo/capetto di turno. Il secondo: senza spunto identitario, e visione futura non è possibile fare sintesi sui “valori comuni”.

La gran parte delle forze politiche al di qua del decumano ha rinunciato da tempo a definire con nettezza la propria identità, la propria essenza, qualche volta anche e solo per fare “spessore” di voti ma non di idee o valori. Sta provando a farlo con molta difficoltà il Partito Democratico con le usuali diatribe interne per avversare la segretaria di turno; mi paiono molto lontani dal farlo le altre forze come M5S, specchiantesi nella personalità del suo leader Giuseppe Conte; Italia Viva e Azione, sempre molto appiattite sulla sovraesposizione mediatica di Renzi e di Calenda, per il quale occorre distinguere un Calenda A da un Calenda B, a seconda del piede che poggia a terra il mattino. Identico destino sembra accomunare tutta la galassia di ciò che si muove a sinistra della sinistra e che ha ancora una rappresentanza parlamentare con l’aggravante che lì manca anche il “corpo del leader” sul quale provare a definire se stessi, dalla scomparsa politica di Vendola in poi.

A sinistra pertanto, definiamo prima valori, idee, mete, obiettivi. Da questa mancanza di chiarezza interna deriva ciò che ho indicato al secondo punto. Come poter organizzare e seminare un campo comune se non si definisce ciò che ci accomuna? Come poter conciliare M5S e Pd se ancora Conte è un leader che fa fatica a scegliere tra Trump e Biden? Se il campo largo si crea solo laddove le cariche monocratiche vengono affidate a personalità vicine agli stellati? Se non vi è un chiaro e netto riconoscimento di parità di dignità e posizioni tra tutte le forze politiche che potrebbero far parte di questo “campo largo”? In fondo, l’esperienza recente dimostra che disuniti si perde. Questo è un dato di fatto. Ma che la somma aritmetica dei voti non significa vittoria.

Il Pd non può non guardare la nebulosa di ciò che si muove al centro, che per quanto mi riguarda è da sempre prioritario al dialogo tra sordi con il M5S, forza che faccio molta fatica a definire di sinistra. Va riattivato anche qui un dialogo con tutte le componenti riformiste dell’arco costituzionale. E questo compito spetta al Pd che rimane la componente di minoranza più attiva nel paese. Perdere il centro significa regalare voti moderati, come già accaduto e accadrà in elezioni amministrative, a questa destra.

E’ necessario, pertanto, compiere una rivoluzione copernicana di pensiero. Abbandonare l’idea di “campo largo” che richiama un’idea di accozzaglia fondata unicamente su un odio comune per l’avversario politico per abbracciare quella di “campo da seminare”: uno spazio politico in cui tutte le forze che si riconoscono nei valori internazionali delle sinistre riformiste, e sottolineo riformiste, possano dare il proprio contributo di idee e di valori, di competenze e di visioni.

Lavorare con chi ci sta, una volta per tutte, e con chi vuole bene al paese e non a sé stesso. Non è detto che prima di seminare efficacemente non faccia bene, per la fertilità del campo, anche a noi come ai tanti dirigenti nazionali indaffarati a far niente che da troppo tempo affollano le scene politiche, qualche anno di maggese. In fondo la Meloni ci insegna, e lo capirà anche lei tra un po’, che la politica vive di ciclicità come i campi da coltivare. E dagli avversari io cerco sempre di imparare. Chi impara, e reagisce, resiste!

In alto, “Il seminatore al tramonto” di Vincent Van Gogh