“Essendo tutta la civiltà antica costruita, persino nelle sue gerarchie, intorno al possesso e all’uso della parola, è ben comprensibile che essa ci abbia lasciato un corpus imponente di pratica e di teoria oratoria. Non è solo trattatistica tecnica – la cui continuità nel tempo fino alla fine dell’età bizantina e oltre è di per sé molto significativa – ma anche della riflessione sulla forza politica, sul potere della parola”. In questi termini Luciano Canfora, illustre filologo classico e storico antichista, tratteggiava la funzione della parola pubblica nella città antica in un suo fortunato saggio, ‘La natura del potere’, pubblicato per Laterza nel 2009.
La parola è una forza che proviene dalla retorica, quella tecnica creatrice di persuasione che mira a vincere sull’interlocutore con l’arma affilatissima di parole e frasi ben costruite, da cui è impossibile non essere ammaliati. Tanto più in un tempo come il nostro scandito da motti concisi e slogan ad effetto, dominato da una comunicazione spesso ridotta al numero limitatissimo dei caratteri ammessi in un tweet, è importante saper discutere e parlare di tutto, anche di ciò che non si conosce alla perfezione. A patto che si sappiano usare le parole nel modo più efficace possibile per sfruttarne tutte le potenzialità.
Proprio sulla forza magica della parola e sulla sua funzione psicacogica si è incentrato un simposio letterario tenuto dal prof. Damiano de Virgilio al Liceo classico “Leonardo da Vinci” di Molfetta. In occasione della Giornata mondiale della lingua e della cultura greca, presso la biblioteca della scuola, il docente di materie letterarie ha coinvolto l’uditorio di colleghi, studenti e genitori in un interessante itinerario sull’importanza che i greci attribuivano alle parole e ai discorsi, al dibattere e all’argomentare, al convincere e all’essere convinti. Ad intervallare il racconto, le letture della studentessa della 5^ A Graziosa Altamura, dopo i saluti della dirigente scolastica Giuseppina Bassi e della prof.ssa Stella de Trizio a nome delle docenti del dipartimento di lettere.
“Abbiamo scelto per questo simposio letterario il tema ‘Le ragioni della forza: la parola prepotente nella Grecia antica’, anzitutto perché il liceo classico è una scuola di formazione a tutto tondo, che consente a chi lo frequenta di utilizzare al meglio le chiavi interpretative per stare al mondo; e poi perché il ricorso ad un approccio che sappia recuperare la visione classica della vita permette ai nostri giovani di maturare ambizioni, sogni e aspettative che sviluppino il proprio carattere e la propria personalità”, esordisce il prof. de Virgilio.
“La parola è potente, anzitutto in quanto principale mezzo di comunicazione. Anche la politica, lì dove non abbia completamente dalla sua parte la forza, necessita della parola per comunicare le proprie verità, termine che in greco si dice ‘alétheia’ e indica non già ‘ciò che è vero’, ma ‘ciò che non è nascosto’, ‘ciò che non è dimenticato’. Essa presuppone un atto dinamico, un continuo togliere il velo a una verità che si ritiene occulta”, spiega. “Ma è poi così certo che la verità possa essere svelata e conosciuta? La domanda è attualissima in un mondo come il nostro, dove la rete e i social media hanno fatto crescere esponenzialmente le informazioni disponibili, ma al contempo hanno anche coperto la verità con la moltiplicazione delle fake news: al punto che è arduo distinguere tra fatti reali e fatti inventati, tra verità e opinione”, prosegue.
Lungo un sentiero tematico snodatosi per tappe, a cavallo tra Esopo e Tucidide, si è cercato di mostrare come “per quanto diffidiamo di lei, la Retorica – sì, proprio quella con la R maiuscola – ci appartiene, è intorno a noi, la abbiamo, chi più chi meno, e più o meno consapevolmente ‘introiettata’ come si dice oggi”, rileva il professore, spiegando che “dai tempi degli antichi Greci, la retorica è una tecnica, un’arte con tanto di regole e dettami che spiegano quali elementi usare, quali parole scegliere e come disporle, in che modo articolare il ragionamento perché nel suo insieme il discorso risulti più convincente”.
Già Omero era ben consapevole del fatto che con le parole si può contendere proprio come si fa con le armi. Inutile dire che a prevalere, nella contesa, è chi dispone delle parole più solide ed efficaci, e sa usarle con maggiore durezza. “Per definire le parole, Omero ricorre spesso a un’immagine nota; per lui le “parole” (épea) sono “alate” (pteròenta): tagliano l’aria per andare dritte alla meta, per fare breccia nel cuore di chi le ascolta. Si discute da moltissimo tempo se le ali in questione siano quelle degli uccelli, o se, come forse è più probabile, si riferiscono alle penne di cui erano dotate le frecce”, prosegue de Virgilio. E aggiunge :“Non c’è da meravigliarsi se il potere della parola, che per il padre della letteratura greca era innato e divino, si trasformò ben presto in un’arte raffinatissima, a disposizione di chiunque volesse impararla”.
Tutto accadde – così almeno si racconta – in Sicilia, a Siracusa, attorno alla metà del V secolo a.C. Nel tribunale di quella città, un giorno, si trovarono uno di fronte all’altro un vecchio e un giovane. L’alterco tra i due – riferito da diverse fonti antiche e tramandato anche dal vecchio maestro Corace e dal suo giovane allievo Tisia – è additato come l’atto di nascita dell’arte potentissima della retorica.
Disciplina antica e nobile, ad essa il filosofo Aristotele dedicò uno dei suoi trattati più famosi, la Retorica, appunto: il manuale da cui tutti i successivi manuali di retorica non possono prescindere. Laddove, invece, Platone non esitò a condannare apertamente l’abilità di produrre discorsi ingannevoli: questi guardano soltanto a quell’ “apparenza” (doxa) incerta e instabile da cui l’uomo saggio deve fuggire, per ricercare invece quella solida e immutabile “verità” (alétheia), raggiungibile solo grazie alla filosofia. I sofisti, dal canto loro, sfruttarono fino in fondo la potenza della parola per affascinare, confondere, smantellare certezze e comunicare verità assolute.
“Quest’ultimi fecero di suddetta tecnica un loro cavallo di battaglia iniziando, intorno alla metà del V secolo, a viaggiare per la Grecia in lungo e in largo, in modo da dispensare, naturalmente a peso d’oro, i loro insegnamenti. Come era da aspettarsi, i sofisti più quotati e dunque più esosi trovarono accoglienza ad Atene, la città dove saper parlare bene era indispensabile per chiunque volesse farsi notare: la «libertà di parola» (parrhesía), era infatti una delle componenti principali del pacchetto di diritti che la democrazia garantiva ai suoi cittadini”, racconta de Virgilio.
I greci sapevano bene che i discorsi rivolti alla comunità sono più efficaci se combinano insieme la forza del discorso che persuade all’incantesimo della parola che seduce. Non si trattava di un’operazione facile: perché essa raggiungesse il suo scopo – in modo nobile e non becero, s’intende – era necessario che, nella mescolanza, gli ingredienti fossero dosati in modo sapiente ed equilibrato. Pochissimi vi riuscirono; tra questi, ve ne fu uno che seppe dispiegare con i suoi concittadini una persuasione che, in modo impercettibile ma non per questo meno determinante, sconfinava nella seduzione.
“Successe ad Atene, nell’inverno del 431/0 a.C. Al termine del primo anno della guerra del Peloponneso – descrive il professore – gli Ateniesi si ritrovarono per commemorare i morti in guerra. L’uomo in questione è Pericle, e il discorso che egli pronunciò in quella circostanza è il celebre epitafio, riportato da Tucidide nel secondo libro della sua opera storica. Questo discorso ha contribuito non poco a formare l’immagine attuale, senz’altro un po’ idealizzata, dell’Atene democratica: più che dei caduti, in effetti, Pericle fece un panegirico della città e della sua meravigliosa costituzione”.
L’epitafio pericleo – non solo per il carisma dell’oratore e per l’autorevolezza dello storico che ne riporta le parole – rimane uno dei pezzi più memorabili e intensi che l’antichità ci abbia trasmesso. “Eppure quella retorica dovette far breccia nei cuori dei più. Pericle aveva parlato a tutti: ai morti e ai vivi, ai ricchi e ai poveri, ai nobili e agli umili, a chi era onesto e a chi, pur senza esserlo, poteva riscattare la sua onestà difendendo la patria”, precisa.
Oggi retorica è nelle pubblicità, che condensano in un motto persuasivo le proprietà mirabolanti del prodotto reclamizzato; è nei manifesti elettorali, che concentrano in uno slogan il programma di un candidato o di un partito; è nei talk show televisivi, dove domina chi ha il discorso più potente, le frasi di maggiore effetto; ma è anche negli insegnanti più capaci, negli avvocati più brillanti, nei predicatori di tutti i credo, nei consigli degli amici, nei messaggi d’amore. È in tutto ciò che si riconosce alla parola un potere quasi assoluto.
“Perfino certi attuali esponenti della politica nostrana utilizzano scaltramente degli slogan per attaccare gli avversari e demolirli alla maniera dei sofisti e dei retori greci e romani”, precisa il docente di latino e greco, per il quale “lo slogan riesce ad avere una maggiore capacità di presa su un uditorio privo di strutture concettuali e incapace di affrontare criticamente valutazioni di ordine politico argomentate in modo complesso e articolato. Faccio solo un esempio. Il termine ‘flessibilità’, parola chiave oggi in ambito lavorativo, dietro un’apparente neutralità semantica nasconde la dura e schietta condizione di precariato in cui versano molti giovani. Una ‘perfida menzogna’, direbbe Platone”.
Di qui l’importanza di (ri)avvicinarsi alla lingua greca, in un mondo in cui siamo tutti connessi a qualcosa e mai a qualcuno, in cui le parole sono cadute in disuso, rimpiazzate da emoji e da altri moderni pittogrammi, immersi in un mondo veloce e in una realtà virtuale che ormai viviamo in differita da noi stessi. Di fatto, a parole non ci capiamo più.
“Si sta perdendo a poco a poco, la capacità di parlare una lingua, qualunque essa sia. Di capire e di farci capire. Di dire cose complesse con parole semplici, vere, oneste: ecco la potenza del greco antico”, spiega de Virgilio. E conclude: “Di questa lingua, così difficile da imparare ma altrettanto facile da dimenticare una volta liberi dall’obbligo scolastico, mi affascina la struttura elegante, talora impervia ma logico-razionale che sa scavare fino in fondo le peculiarità semantiche di ciascun singolo vocabolo. È grazie al greco antico che possiamo formulare un’idea, dar voce ad un’emozione, comunicare uno stato d’animo, esprimere un desiderio, ascoltare canzoni, leggere poesie”.
Nella foto, in alto, Damiano de Virgilio, docente di latino e greco, nell’aula magna del Liceo classico “Leonardo da Vinci” di Molfetta (fonte Nicolò Agrimi)