Guardare alla Democrazia Cristiana, a trent’anni dalla sua scomparsa dallo scenario politico, senza rimpianti per quella storia d’impegno collettivo né tantomeno demonizzazioni, ma solo con la volontà ferma di storicizzare quell’esperienza: un partito che ha avuto il merito di essere diventato una grande forza politica, aver dato voce e spazio a dimensioni plurali, aver perseguito la ricostruzione democratica e costituzionale del paese, proiettandola in un inedito orizzonte europeo.
Questo, come suggerito dall’on. Giusi Servodio, il filo conduttore dell’incontro organizzato all’ateneo barese per presentare il volume Storia della Democrazia Cristiana 1943-1993 (il Mulino) di Paolo Pombeni, Guido Formigoni e Giorgio Vecchio.
L’evento, promosso dall’Agenzia Giornalistica Corsivo 2.0 e coordinato dalla prof.ssa Rosina Basso Lobello, si è sviluppato intorno alla relazione del prof. Vecchio, uno degli autori del volume, ordinario di Storia Contemporanea all’università di Parma, e agli interventi della prof.ssa Franca Maria Papa, docente di Filosofia Politica all’ateneo di Bari, dell’on. Flavia Piccoli Nardelli, presidente dell’Associazione delle istituzioni di cultura italiane e del dott. Federico Imperato, ricercatore dell’università barese.
Fare della Dc un partito dalle “dimensioni plurali” è il merito più alto che si può riconoscere ai suoi “federatori” e “insuperabili leader”, che compirono la scelta di allargare gli spazi democratici del partito per consentire il consolidamento più ampio possibile alla ricostruzione democratica del paese. Una missione di cui furono protagonisti, due grandi intellettuali, soprattutto: Alcide De Gasperi, per otto volte presidente del consiglio, a capo di altrettanti, diversi governi, e Aldo Moro, martire della Repubblica.
Un compito, spiega il prof. Vecchio, che va inquadrato nel complesso scenario di un’Italia che stenta ad uscire dalle macerie del ventennio fascista, della guerra combattuta a causa delle follie sanguinarie del nazismo, abbracciate dall’Italia anche con la vergognosa e dolorosa promulgazione delle leggi razziali. Una stagione particolarmente triste, una deriva grave e cieca da cui ci riscattò la lotta di liberazione, l’eroica pagina della Resistenza.
Moro si adoperò, da fondatore della Dc, nella sua lunga esperienza di gestione nel partito e nel governo, da ministro, da presidente del consiglio per allargare la partecipazione all’esecutivo di altre forze politiche. Un impegno perseguito in maniera tenace con l’obiettivo di conseguire il più ampio consolidamento democratico e costituzionale del paese, pagato con il sacrificio della propria vita. Grande uomo di fede, Moro fu impegnato in politica da cristiano non in quanto cristiano. Il suo martirio coincise con il raggiungimento del massimo risultato politico: portare il Pci ad assumere “responsabilità di governo”.
Il 28 giugno 1977, con una stretta di mano, come ricorda lo storico, il segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer, e il presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, sancirono l’inizio della collaborazione tra le rispettive forze politiche. Due leader che, tra l’altro, traggono obiettivo e strategia in vista del “compromesso storico” dalla grande capacità di lettura degli eventi internazionali.
“Con la nuova, grande disponibilità di numerosi archivi privati e pubblici, questo libro prova, per la prima volta, a tracciare la storia del partito non dei governi, non del paese”, precisa Giorgio Vecchio.
Moro guidò governi di centro-sinistra “organico” tra il 1963 e il 1968 e tra il 1974 e il 1976. Promosse la cosiddetta strategia dell’attenzione verso il Partito comunista italiano attraverso il compromesso storico e determinò la nascita del governo Andreotti III (definito della non-sfiducia e di solidarietà nazionale) al quale il Pci garantì l’astensione. Il suo rapimento con l’uccisione della scorta da parte delle Brigate Rosse, il 16 marzo 1978, avveniva mentre Giulio Andreotti si apprestava ad ottenere la fiducia da entrambi i rami del parlamento per il suo quarto governo, a cui il Pci aveva garantito l’appoggio esterno. Dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio, Moro fu assassinato.
Vecchio nel suo intervento rileva come Moro, pur convivendo nella Dc elaborazioni e sensibilità diverse, dovute alla presenza di referenti del sindacato, delle Acli, del variegato mondo del volontariato, aggregazioni maggiormente caratterizzate dal Concilio Ecumenico Vaticano II, fosse in grado di valorizzarle e ricondurle ad unità. Proprio come il libro in questione: un testo, come ha precisato il relatore, unitario, anche se scritto da tre studiosi, “per giunta” non democristiani.
Ma che partito è stato la Dc? “Un partito di ispirazione cristiana, formato da cristiani coerenti, convinti, autonomi dalla gerarchia ecclesiastica, con la quale – spiega Vecchio – entrano anche in contrasto. I fondatori della Dc si sono mossi in maniera autonoma. Mai il partito è stato il partito della chiesa: anzi, la gerarchia di quella istituzione è spesso intervenuta criticamente e in maniera problematica. Ha sempre fatto pressioni contro la svolta a sinistra. Una storia controversa e complicata. I laici hanno sempre agito con autonomia. Il postconcilio corrispose con la laicizzazione della società, con la secolarizzazione. Il retroterra della chiesa, divenne sempre meno visibile. La grande capacità della Dc ad allearsi non faceva certamente pensare alla sua scomparsa: il partito controllava numerosi enti pubblici e locali anche con fare virtuoso. La questione morale degli anni ’70 avviò la crisi del consenso, lentamente”.
Erano questi gli anni del profondo e generalizzato mutamento della società: il passaggio dal mondo contadino a quello industriale, con tutti i riflessi sull’assetto delle classi sociali e la nascita della media e piccola borghesia, a cui faceva da contraltare la classe operaia. Ma c’era pure una classe dirigente locale di spessore, che spesso era l’espressione del ceto politico democristiano, in grado di governare in maniera sufficientemente positiva. In tutti era viva una forte pregiudiziale antifascista, con un netto sbarramento nei confronti degli epigoni di quella nefasta stagione.
La vita interna della Democrazia cristiana, come osserva Vecchio, aveva dell’incredibile: alle “risse” congressuali rapidamente subentrava una pronta capacità di ripresa, rappresentata da liste unitarie. Le correnti erano espressione di equilibri interni, tali da garantire che nessuno potesse prevalere sugli altri. Rarissime le fuoriuscite dal partito: tutto il contrario di quanto ci tocca registrare oggi. De Gasperi fatto fuori nel ’53 cercò sempre l’unità del partito.
“Moro rappresentava il perno del sistema. Era l’autentico federatore: tutti si fidavano di lui. De Mita e Forlani, che ne presero il posto alla segreteria del partito, non furono in grado di garantire lo stesso livello di coesione. Si cominciò ad attribuire minore importanza alla formazione politica, lo stato cominciò a godere di minor prestigio mentre l’Europa cominciava a farsi sempre più spazio. Intanto nelle fabbriche cresceva la lotta di classe”, spiega il docente dell’università di Parma.
Nè tangentopoli nè la caduta del muro di Berlino né il nuovo assetto internazionale, che si andava profilando, furono le cause decisive del declino della Dc. Un disegno storiografico organico, la storia unitaria del partito iniziò a diventare “una storia a pezzi”.
Il riferimento alla Dc rimane quello di una realtà caratterizzata dall’ispirazione cristiana, da una forte capacità di governo del paese e dalla virtù di saper accogliere storie e visioni particolari, riportandole ad esperienze politiche unitarie. La drammatica svolta del ’78, con l’uccisione di Moro e della sua scorta, pone fine a questo disegno unitario della Dc.
“Quella che si apre davanti agli occhi del lettore – spiega Vecchio – è una storia dell’Italia attraverso le vicende di un partito che è stato tra il 1943 e il 1993 il perno principale del governo del paese, il partito-nazione, in grado di modellarne la vita politica e culturale”.
Un libro che si pone naturalmente in confronto con le vicende politiche di oggi, su come sono gestite, sui danni che causano e che amplificano, sulla drammatica assenza di una classe dirigente di spessore, sull’astensionismo sempre crescente dei cittadini-elettori, cattolici compresi: la politica oggi non è più servizio, militanza ma interesse personale. È per questo che occorre un profondo risveglio; non un nostalgico ritorno al passato né tantomeno una mera, opportunistica, egoistica occupazione del potere.
Una direzione di marcia, per la quale valgono le parole di papa Francesco nell’Evangelii Guadium: “Prego il Signore ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri! È indispensabile che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro piani? Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale. La politica è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità”.