Mercoledì 31 gennaio sarà una giorno decisivo per l’ex Ilva di Taranto: salvo novità dell’ultima ora, segnerà, infatti, l’inizio dell’amministrazione straordinaria, con il governo che, attraverso un decreto, ha garantito la liquidità corrente con un prestito ponte per 320 milioni. Una fase che dovrebbe essere temporanea, come precisa Palazzo Chigi, necessaria alla ricerca dei migliori partner privati con l’obiettivo di salvaguardare la continuità produttiva, tutelare l’occupazione e garantire la sicurezza dei lavoratori.
Di qui la mossa di ArcelorMittal, il colosso della siderurgia mondiale, che nei giorni scorsi ha scritto a Giorgia Meloni: “Siamo disponibili a rimanere come partner strategico di minoranza che fornisca esperienza tecnica e industriale per la joint venture con Invitalia mentre il governo decide una soluzione permanente per questo asset strategico di interesse nazionale”.
A breve, dunque, l’ennesimo e forse “definitivo” capitolo di una lunga, complicata ma soprattutto penosa vicenda che proprio all’inizio di quest’anno ha conosciuto una brusca impennata. Lo scorso 8 gennaio, il figlio del re dell’acciaio, Aditya Mittal, giunto a Palazzo Chigi direttamente da Londra, aveva ribadito che la multinazionale non è disposta a mettere più un soldo negli impianti dell’ex Ilva di Taranto, mandando così a stendere quattro ministri e un sottosegretario, prima di salutare e di tornarsene in aeroporto. Un fiasco clamoroso e annunciatissimo, per giunta, dato che le intenzioni della multinazionale erano palesi da almeno quattro anni.
Com’era ampiamente previsto, Arcelor Mittal dichiarava di volersi sfilare, cinque anni dopo aver vinto la gara per il siderurgico tarantino e dopo poco più di due anni di coabitazione forzata con lo stato, attraverso Invitalia, entrata in società 2021 dopo una guerra legale, che ora ricomincerà ancora più dura, ma sulle spoglie dell’acciaieria in ginocchio dopo una gestione disastrosa.
Fino all’ultimo si è probabilmente sperato che il disastro si consumasse in silenzio, di rinvio in rinvio, nella farsa dei ministri che agivano l’uno all’insaputa dell’altro (lo abbiamo raccontato QUI), complice un’informazione sempre pronta a prendersela coi magistrati e gli ambientalisti, e molto più timida nel segnalare il vicolo cieco in cui s’è cacciato il più grande stabilimento industriale italiano. Non è un caso se alla conferenza stampa di fine anno a nessuno era venuto in mente di porre la domanda su una situazione che, si sapeva, sarebbe scoppiata tra le mani dell’esecutivo a inizio 2024.
Mittal ha confermato il sospetto circolato fin da quando vinse nel 2016 la gara, cioè che volesse rilevare Ilva per controllare un pericoloso concorrente e controllare che nessuno ne ostacolasse l’inevitabile trapasso, potendo così eliminare un ingombrante competitor dal mercato quando il fabbisogno di investimenti fosse cresciuto. Come, in realtà, è andata: nel 2023 Ilva ha prodotto meno di tre milioni di tonnellate di acciaio, record negativo di sempre. La gestione Morselli ha portato il gruppo in ginocchio, con un solo altoforno funzionante e l’uso massiccio di cassa integrazione e debiti con i fornitori. Il vecchio sospetto che l’acquisto dell’Ilva sia stato mirato a bloccare l’inserimento di un concorrente nel mercato europeo, senza alcun reale interesse al rilancio delle acciaierie tarantine, è rinforzato dalla notizia recentissima che proprio ArcelorMittal investirà oltre un miliardo per costruire a Dunkerque (uno dei 50 siti industriali francesi più inquinanti) due forni elettrici e un’unità diretta per la riduzione del ferro, con una garanzia statale, messa nero su bianco, di 850 milioni.
Invitalia a metà gennaio ha inviato una lettera all’Ad di Acciaierie d’Italia, la società di cui è socia insieme ad ArcelorMittal, chiedendo l’avvio della procedura di amministrazione straordinaria. Adesso l’ad Lucia Morselli ha l’obbligo di rispondere: se non lo farà, Invitalia potrà chiedere al ministero delle Imprese e del Made in Italy di attivarla. E sul via libera del governo Meloni non c’è alcun dubbio. L’acciaieria di Taranto, insomma, ha il destino segnato. Il passo decisivo compiuto dalla società controllata dal Mef – che ha il 38% di Acciaierie d’Italia – è stato comunicato ai rappresentanti sindacali dal sottosegretario Alfredo Mantovano e dai ministri Raffaele Fitto, Giancarlo Giorgetti, Adolfo Urso e Marina Calderone, presenti all’incontro con i sindacati a Palazzo Chigi.
Il colosso franco-indiano gioca in maniera ambigua: negli ultimi giorni rha inviato una lettera alla presidente del consiglio e al sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, dichiarando: “Abbiamo preso comunque atto della decisione del governo e quindi, al fine di assicurare un clean break (taglio netto, ndr), abbiamo offerto di cedere la nostra intera partecipazione a Invitalia, per un prezzo che riflette solo una frazione del nostro investimento per cassa. Sebbene Invitalia l’abbia rifiutata, tale offerta rimane sul tavolo nel caso in cui il Governo desiderasse riconsiderarla”.
In poche parole, si dice sì a ogni richiesta del governo, purché non venga attivata l’amministrazione straordinaria che vorrebbe dire una sostanziale cacciata dalla società che gestisce le acciaierie di Taranto. Reale cedimento o nuova tattica per prendere tempo?
In questa partita a poker, il tempo però stringe e i sindacati incalzano, anche se con posizioni non propriamente sovrapponibili. “Dobbiamo mettere in sicurezza i lavoratori, la priorità è garantire le risorse per manutenzioni e sicurezza degli impianti”, esorta il segretario Fiom Michele De Palma. Che così prosegue: “Per noi la via maestra resta comunque la gestione pubblica. I 320 milioni stanziati non bastano: il governo ci ha risposto che ci sono le condizioni per intervenire con ulteriori risorse”.
Per Rocco Palombella della Uilm “Mittal continua a mettere in atto azioni di disturbo deleterie per l’Italia e per i lavoratori, ma oggi questa strategia è al capolinea. Il governo ha risposto con un decreto legge che lo mette nelle condizioni di interrompere la continuità societaria con la richiesta di amministrazione straordinaria. Noi ovviamente ribadiamo la nostra contrarietà all’amministrazione straordinaria, che nel 2015 ha creato un disastro per le aziende dell’indotto. Abbiamo avuto però delle rassicurazioni da parte di tutti i ministeri sulla salvaguardia occupazionale”. Per il leader Fim Cisl Roberto Benaglia dopo il “boicottaggio” dei Mittal, il commissariamento è “una soluzione drastica ma anche l’unica possibile per dare continuità produttiva”.
A margine dell’intera vicenda, da registrare la posizione di Legambiente che spinge per la decarbonizzazione dello stabilimento attraverso la costruzione di forni elettrici, in grado di produrre acciaio green. Una modalità di produzione verso cui si stanno orientando i colossi dell’acciaio nel resto dell’Europa, come illustra il video “Taranto dopo il carbone” (qui il video).