Quando vado ad una mostra, qualunque sia il tipo di mostra, la prima cosa che mi ritrovo a osservare sono le persone. Credo sia un’abitudine che ho preso qualche anno fa, quando mi sono fermata un anno ad Ivrea ad insegnare. Era l’anno della pandemia e del lockdown, e tutti avevano quella vistosa mascherina sul volto, che alcuni portavano di colori diversi, forse, per esorcizzare l’angoscia del momento.
Vivevo sola e i contatti con i colleghi e con gli alunni erano i soli che avevo in tutta la giornata. Per il resto del tempo, mi capitava di vagare per una città deserta. Ivrea ha circa trentamila abitanti, ma in quei giorni di clausura non si vedeva che qualche vecchietto che andava a fare la spesa insieme a me. I supermercati sembravano grandissimi con i loro corridoi vuoti e ricordo che da allora ho preso l’abitudine di osservare bene i pochi presenti che, a loro volta, ricambiavano i miei sguardi indagatori. Chi erano? Cosa facevano nella vita? Che avrebbero fatto una volta tornati a casa?
Erano questi i quesiti che formulavo nella testa e mai come allora sono stata tanto curiosa di sapere le loro storie, di conoscere da vicino le loro vite. Come Sherlock Holmes, mi esercitavo a capire che lavoro facessero e chi fossero dai dettagli. Un colletto della camicia abbottonato fino in cima, un braccialetto che spuntava dalla manica, una macchina fotografica al collo. Da tutti questi particolari mi figuravo delle storie che, chissà, se avessero almeno un pizzico di verità.
Non so, ma è la stessa cosa che mi ritrovo a fare durante le mostre. Chi è che frequenta una mostra come quella di Elliott Erwitt al Teatro Margherita? Chi è che si interessa ai suoi buffi ritratti? Tanta gente e, come se non bastasse, diversissima. Abbiamo un giovane pittore, che osserva con occhio esperto le foto appese alle pareti. Un’insegnate di danza, che ha lasciato la sua scuola vicino a piazza Umberto per poter vedere le foto, durante la pausa pranzo. Presto le sue allieve faranno un saggio di danza e ha tanta paura. Ha sempre tanta paura, ma a quel timore si accompagna sempre una vivida emozione.
Guarda a lungo l’immagine che ritrae un bambino sulla bicicletta, con due baguette legate strette dietro di lui. Sembra osservare lo spettatore e ridere. Che buffo quel bambino, ripete divertita l’insegnante, e si sofferma su altre foto che ritraggono bambini e cani, e le trova tutte molto divertenti, buffe per l’appunto, insolite. Quelle fotografie le hanno risollevato un attimo l’animo, allontanando tutta la tensione. Avrà pensato che si trattasse solo di un saggio di danza, in fondo. Nulla per cui perdere la testa. Sarebbe andato bene e, con quella ritrovata tranquillità, aveva proseguito la sua perlustrazione delle opere esposte.
Sono certa che se Erwitt fosse stato presente alla sua mostra l’avrebbe fotografata, perché aveva anche lei qualcosa di singolare, con quel suo pellicciotto sintetico e la scarpa grigia che le avvolgeva il collo. In fondo, Erwitt era un curioso e faceva di tutto per fotografare la realtà da un punto di vista diverso per poi vendere i suoi scatti ai magazine più famosi del tempo. Aveva costruito la sua intera carriera di fotografo su questo, cioè sulla sua capacità di ritrarre tutto in maniera differente. Perfino personaggi noti, come Marilyn Monroe, mostravano i propri lati più inediti e nascosti. Una insospettabile invulnerabilità che risaltava dallo sguardo.
Mi viene in mente quando la rivista Life gli commissionò delle fotografie che ritraessero l’amore. Una sfida interessante per un fotografo che aveva avuto molteplici matrimoni, tutti finiti male. Eppure, era un lavoro e non si poteva rifiutare. Allora, Erwitt prese una coppia di novelli sposi e li riprese mentre la loro macchina era ferma dinnanzi alla spiaggia. Il sole stava tramontando e il mare era calmo, cristallino. C’era un vento calmo e i due innamorati si baciavano e ridevano a crepapelle, dimentichi dell’obiettivo ad un passo da loro. Questo grande artista parigino, ma statunitense di formazione e identità, riprese la loro immagine riflessa nello specchietto dell’auto, dando vita ad uno degli scatti più iconici e innovativi della sua intera produzione.
Per non parlare, poi, di un altro emozionante scatto, denso di amore romantico, che ritrae due amanti baciarsi sotto la pioggia, mentre un intruso con tanto di ombrello si appresta a rubare loro la scena. “Che sia una prova che non tutti i grandi amori durano per sempre?” domanda un vecchietto alla donna accanto a lui, tenendole il braccetto. Chi può dirlo.
Il tempo sembra essere sospeso all’interno del Teatro Margherita. Si respira la stessa aria di quei tempi lontani. Eppure, c’è una vita, uno slancio inatteso in chi osserva quegli scatti. Sembrano assorbire e sentire dentro di sé quello stesso slancio vitale, quella disperata vitalità che Erwitt ha reso cifra stilistica della sua opera.
Quell’ironia palpabile, che il fotografo riteneva fosse presente in ogni momento dell’esistenza, anche nel più cupo, nel più tetro. Ogni storia personale sembrava legarsi a doppio filo con le vite raccontate nelle foto, creando un cortocircuito di emozioni che sembrava non svanire mai, che sono certa ogni visitatore abbia portato con sé. Alla fine della mostra, sembrava che fossimo tutti intimi amici, perché avevamo vissuto qualcosa che sentivamo essere unico nel suo genere. Condividere l’arte, nella sua forma più pura, è sempre un’emozione che non si scorda facilmente.
Un’esperienza assolutamente da non perdere: visitando la mostra, che rimarrà aperta sino al 31 marzo, si può provare ad immaginare cosa si possa celare dietro quei meravigliosi scatti, cosa si celasse nell’animo di un artista che ha rivoluzionato il modo di fissare immagini con la camera oscura, che ha dimostrato che ci sono molti modi diversi per rendere speciale un soggetto. Come diceva lo stesso Erwitt “bisogna attendere il momento in cui l’anima si rivela e, solo a quel punto, lasciare che il dito scatti sul bottone della fotocamera, sia essa analogica, digitale, sia anche il semplice tasto del telefonino“. L’importante è non lasciare che un attimo prezioso per voi vada via. Bisogna conservarlo come il ricordo più caro.
Alcune foto di Elliott Erwitt, esposte al Teatro Margherita di Bari