Sotto il segno di Riciotto Canudo

"Avvistamenti", la rassegna organizzata a Bisceglie da Antonio Musci e Daniela Di Niso, rende omaggio al primo teorico del cinema, nel centenario della scomparsa

Il premio Oscar Zbigniew Rybczyński e tre Leoni d’Oro alla carriera, Flavia Mastrella, Antonio Rezza e Giacomo Manzoni. Sono solo alcuni dei nomi che, nel corso degli anni, sono stati ospiti dell’ormai storico (non) festival Avvistamenti, con la direzione artistica di Antonio Musci e Daniela Di Niso, fondatori, nel maggio 2021, del Cineclub Canudo. Una storia di tenacia e passione che ha permesso ad una rassegna di cinema sperimentale – caratterizzata da una programmazione certamente non pensata per solleticare i gusti del grande pubblico ma per sfidarne i preconcetti e scuoterlo dall’intorpidimento generale – di tagliare quest’anno il traguardo della ventunesima edizione, rinnovando brillantemente l’impegno di promuovere e diffondere la cultura cinematografica nella sua complessa relazione con le altre forme d’arte contemporanea.

Bruno di Marino intervista Robert Cahen

Un’edizione concepita sotto il segno di Ricciotto Canudo, l’intellettuale pugliese primo teorico e critico del cinema, di cui si è celebrato il centenario della morte, avvenuta a Parigi nel 1923. A lui nel 2001 è stata intitolata l’associazione biscegliese che organizza il festival, individuando nel suo pensiero e nella sua ricerca intellettuale una bussola insostituibile per proseguire nel cammino della promozione del cinema come “arte totale” e al tempo stesso pratica sociale condivisa. Vissuto nella capitale francese nei primi anni del Novecento e ricordato da Jean Epstein come il padre fondatore dell’estetica cinematografica, fu proprio Canudo a coniare, agli albori del cinema, l’espressione – oggi di uso comune – “settima arte”: sintesi delle arti tradizionali, capace di rappresentare la realtà non solo nel suo aspetto materiale ed esteriore, tradizionalmente oggetto della fotografia, ma soprattutto il mondo onirico e mentale, la vie profonde, intérieure che la poesia o il gesto teatrale non possono che “indicare” e la musica si limita a “suggerire”.

Per rendere omaggio a colui che è sempre stato un punto di riferimento teorico nello studio del cinema in quanto arte, contro il suo svilimento commerciale, è stato messo a punto anche quest’anno un programma ambizioso dal respiro internazionale, che ha portato al Politeama Italia di Bisceglie, nelle serate del festival, un pioniere della videoarte europea come Robert Cahen: geniale artista francese che ha aperto la strada a nuovi modi di rappresentare il paesaggio e lo spazio urbano, partendo dalle proprie esperienze personali e creando metamorfosi pittoriche, poetiche, musicali con le immagini e i suoni di tutti i giorni. Un lavoro di ricerca e sperimentazione caratterizzato da una sofisticata applicazione di tecniche elettroniche che manipolano suono e immagine, spazio e temporalità, con conseguente sottile trasmutazione dell’illusorio e del reale. Risuonando di arguzia e fascino, eseguite con precisione tecnica, le sue opere alludono a motivi sia formali che tematici di viaggio, movimento e transizione.

“Cahen ha sempre lavorato su questa incredibile esplorazione/immersione del/nel reale, amplificando emozionalmente dettagli ed eventi apparentemente banali, alla ricerca di una drammaturgia visiva che si costruisce lentamente, proprio come una partitura musicale, in crescendo, rivelando poeticamente elementi del paesaggio, naturale ma anche umano”, spiega Bruno Di Marino, studioso di immagini in movimento che ha curato, insieme ad Antonio Musci, la rassegna di film proiettati per rendere omaggio all’arte del “videoasta” francese (per utilizzare un termine caro a Gianni Toti, seminale creatore della poetronica negli anni ’90, che di Cahen è stato molto amico).

Con il loro (non) festival, dal 2002 ad oggi Musci e Di Niso hanno esplorato la filmografia sperimentale di decine d’autori, dai più giovani a quelli di riconosciuta fama internazionale, facendoli dialogare e incontrare (fisicamente e non solo metaforicamente), sempre muovendosi su un terreno ibrido, fatto di contaminazioni fra linguaggi e media diversi. Ed è anche per questo che l’opera del maestro Cahen è stata messa in dialogo con quella di altri registi italiani, ospiti della rassegna Made in Italy. Artisti di generazioni differenti, tra i più originali e stimati nel panorama del cinema sperimentale italiano, come Mauro Santini, Luca Ferri, Morgan Menegazzo, Mariachiara Pernisa e Salvatore Insana. Il compito di far emergere ricorrenze, discordanze e legami sotterranei tra i film di questi audaci autori italiani e quelli di Cahen è stato affidato all’intervento sonoro di tre musicisti pugliesi – Gabriele Panico, Mariasole De Pascali e Walter Forestiere – che hanno sonorizzato dal vivo alcune delle opere selezionate, giocando con la musica per legarli insieme o, al contrario, per accentuarne le differenze stilistiche.

Mauro Santini e Bruno Di Marino

Non è un caso, d’altronde, che Cahen nasca innanzitutto come compositore, prima di abbandonare le sperimentazioni sul suono e dedicarsi totalmente a quelle sull’immagine. Lavorando sulla colonna sonora, ad esempio modificando e alterando quella originariamente pensata per accompagnare le immagini, è stato così possibile incidere in maniera significativa sull’esperienza complessiva dello spettatore, conducendolo in luoghi nuovi e inesplorati. Dal dialogo inedito e sorprendente tra questi lavori così differenti, è emersa ancora più chiaramente la relazione indissolubile del cinema di Cahen con la pittura, perfino con la scultura. Si è parlato spesso, infatti, nel corso delle serate, di un uso quasi scultoreo del video, di una manipolazione della materia elettronica – prima analogica e poi digitale – ottenuta innanzitutto attraverso l’alterazione temporale.

Proprio su questo aspetto e sull’utilizzo caratterizzante del ralenti nei suoi lavori, si è soffermato il maestro francese durante un workshop condotto a Bisceglie sulla relazione tra suono e immagine nel suo cinema. «Il rallentamento è una tecnica che permette allo spettatore di costruirsi il proprio film mentre sta guardando. Di riflettere sul significato di ciò che ha davanti, prima che l’immagine cambi nuovamente. Agendo sul tempo e applicando una trasformazione della realtà, diamo la possibilità a chi guarda di formarsi una propria idea, di partecipare, insieme all’autore, alla creazione dell’opera cinematografica», ha spiegato Cahen.

Salutato Cahen, ripartito per la Francia con la promessa di tornare presto nuovamente in Puglia – che ha visitato per la prima volta proprio in occasione del festival – la chiusura della ventunesima edizione di Avvistamenti è stata infine dedicata a a Sparklehorse, il cantautore statunitense scomparso prematuramente nel 2010 e autore di alcuni degli album più significativi del songwriting degli ultimi decenni. A pochi mesi dalla pubblicazione del suo unico album postumo, la rassegna biscegliese ha riservato a questo grandioso e tragico artista un intenso approfondimento curato da Michele Casella, giornalista e critico musicale di testate come Alias del Manifesto, Il Sole 24 Ore e Rolling Stone. Attraverso la proiezione di videoclip e materiale di repertorio di quegli anni, Casella ha ripercorso la discografia del polistrumentista americano (al secolo Mark Linkous), mettendo in luce il suo talento fuori dall’ordinario, ma soprattutto la sua capacità di miscelare rock, attitudine indie e sensibilità cantautoriale.

Il racconto ha esplorato anche le numerose collaborazioni che Sparklehorse ha inanellato nel corso della sua carriera, da Tom Waits a PJ Harvey, da David Lynch a Danger Mouse, da Thom Yorke a Nina Persson, prima di lasciare spazio alla proiezione del documentario This Is Sparklehorse (Regno Unito, 2022), diretto da Alex Crowton, Bobby Dass. Un film ancora inedito in Italia, proiettato per la prima volta ad Avvistamenti dopo essere stato appositamente sottotitolato per la proiezione biscegliese. Un’ulteriore dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – del lavoro certosino e di accurata selezione operata da Antonio Musci e da Daniela Di Niso, che ha reso il loro (non)festival, nel corso di questi due decenni, una mosca bianca da tutelare all’interno del palinsesto culturale regionale.

In alto, Gabriele Panico sonorizza “Le Cercle” di Robert Cahen. Le foto sono di Alessandro de Leo