Il miracolo laico che può salvare la democrazia americana

Sulla strada della ricandidatura di Trump, ora ci sono le sentenze contrarie dell'Alta Corte del Colorado e del Maine che si rifanno al quattordicesimo emendamento

Nel maggio del 2016, quando era ormai certo che Donald Trump avrebbe vinto la nomination del partito repubblicano, lo storico e politologo americano Robert Kagan pubblicò un articolo sul Washington Post intitolato How Fascism Comes to America (Così il fascismo arriva in America). Kagan – fino a quel momento affiliato al Great Old Party, come viene chiamato il partito repubblicano a stelle e strisce – sosteneva che Donald Trump non poteva e non doveva essere considerato un normale candidato politico; che era andato oltre il partito repubblicano e che la sua ascesa nei consensi non riguardava tanto una determinata agenda politica, quanto l’immagine insidiosa del leader-salvatore al quale affidare le sorti della nazione.

Il modello dell’uomo forte che da solo difende il suo popolo da tutte le minacce, esterne e interne, senza il bisogno di spiegare come; che incoraggia il culto della personalità, sposa il nazionalismo e una retorica di potenza rozzamente sessista, xenofoba e anti liberale: un fenomeno storicamente legato a periodi d’involuzione autoritaria nell’Europa del ventesimo secolo, e che dal 2000, con l’ascesa al potere di Putin in Russia, è divenuta una caratteristica rilevante della politica globale e, quindi, una singolare minaccia per la democrazia americana.

Consigliere del segretario di stato Shultz durante la presidenza Reagan, e di John McCain nella campagna elettorale del 2008, Kagan abbandonò per questo motivo il partito repubblicano e sostenne la candidatura di Hillary Clinton.

Il 30 novembre scorso Robert Kagan ha fatto di nuovo parlare di sé con la pubblicazione, sullo stesso giornale, di un lungo articolo, o saggio, in cui invitava i democratici a smettere di illudersi, e a considerare che il pericolo di una dittatura Trump stava diventando sempre più inevitabile (“A Trump dictatorship is increasingly inevitable. We should stop pretending”). Una lucida analisi che prendeva le mosse dalla seguente constatazione: “Salvo un miracolo dell’ultima ora, Trump sarà presto il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti”.

Una volta ottenuta la nomination – spiega Kagan – le critiche fin qui rivolte da altri esponenti repubblicani suoi rivali nella competizione (principalmente il governatore della Florida, Ron DeSantis, e la ex governatrice della South Carolina, Nikki Haley), di colpo cesseranno e Trump potrà cominciare la campagna per le elezioni presidenziali sostenuto da risorse politiche e finanziarie crescenti e da un partito sempre più unito. A differenza di quanto accadrà allo schieramento democratico, che sta perdendo consensi soprattutto tra l’elettorato più giovane e gli afro-americani, mentre la presenza di almeno due candidati indipendenti, espressione della “sinistra populista” (la definizione è dello stesso Kagan) – Jill Stein e Robert Kennedy Jr. – non aiuterà di certo il presidente in carica.

Potrebbe, quindi, Trump vincere le elezioni presidenziali? La risposta di Kagan è: a meno che non accada qualcosa di radicale e imprevisto, certo che può. Una volta insediatosi nuovamente alla Casa Bianca, prosegue Kagan, non solo Trump eserciterà gli straordinari poteri che il sistema politico americano conferisce all’esecutivo, ma lo farà con molto meno autocontenimento di qualsiasi altro presidente, compreso lui stesso durante il suo primo mandato. Detto questo, si pone l’interrogativo cruciale: la sua presidenza si trasformerà in una dittatura? La risposta di Kagan, ancora una volta, è che le probabilità sono piuttosto alte. La seconda parte del saggio (perché di questo si tratta) offre una spiegazione dettagliata e drammaticamente convincente di come, quando e perché ciò potrebbe accadere. Se fosse un film s’intitolerebbe Trump 2, la vendetta.

Ma per quanto incredibile, come incredibili furono i fatti del 6 gennaio 2021, si tratta di una realtà storica. Conclude Kagan: “Se otto anni fa sembrava inconcepibile che un uomo come Trump potesse essere eletto presidente, questo è successo nel 2016. Se sembrava inimmaginabile che un presidente americano potesse cercare di rimanere in carica dopo aver perso le elezioni, questo è successo nel 2020. E se nessuno poteva supporre che Trump, dopo aver tentato senza riuscirci di invalidare le elezioni e fermare il conteggio dei voti dei collegi elettorali, sarebbe comunque riemerso come leader incontrastato del Partito Repubblicano, divenendo il candidato ufficiale per le elezioni del 2024, questo è quanto sta per accadere. In pochi anni siamo passati dall’essere relativamente sicuri nella nostra democrazia all’essere a pochi passi dall’avvento di una dittatura”.

Il miracolo che può salvare la democrazia americana (e quindi la nostra democrazia, perché non c’è dubbio che un eventuale ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti avrebbe pesanti ripercussioni in Europa) non è un evento soprannaturale, ma la stessa costituzione degli Stati Uniti.

Martedì 19 dicembre, com’è noto, l’Alta Corte del Colorado ha vietato a Donald Trump di candidarsi alle primarie presidenziali dello stato, dopo aver stabilito che egli aveva preso parte, istigandola, all’insurrezione del 6 gennaio 2021. Si è trattato di una sentenza storica perché, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, una corte di giustizia ha escluso un candidato presidenziale dalle primarie in base a una disposizione del 1868 che impedisce di ricoprire una qualsiasi carica pubblica a chi, dopo aver giurato fedeltà alla costituzione, “è stato coinvolto in una insurrezione o una ribellione contro gli Stati Uniti, o ha dato aiuto o sostegno a coloro che l’hanno intrapresa” (solo un voto del Congresso degli Stati Uniti con una maggioranza dei due terzi di ciascuna camera – veniva precisato – avrebbe potuto rimuovere tale interdizione).

“La maggioranza della corte ritiene che Donald Trump non sia idoneo a ricoprire la carica di presidente ai sensi della sezione tre del 14° emendamento della costituzione degli Stati Uniti” si legge nella sentenza. “E poiché non idoneo, costituirebbe un atto illecito da parte del segretario di stato del Colorado se egli lo accettasse come candidato per le primarie presidenziali”. Ora, per lo stesso motivo, la segretaria di stato del Maine, Shenna Bellows, ha annunciato di aver preso la stessa decisione.

Curiosamente il 14° emendamento, approvato tre anni dopo la fine della guerra civile americana, è lo stesso che, nelle prime due sezioni, garantiva la cittadinanza a tutti i nati e naturalizzati negli Stati Uniti, nonché i diritti civili a tutti i cittadini. La terza sezione è quella citata nella sentenza che ha escluso Trump dalle primarie del Colorado.

Naturalmente, anche in questo caso, Trump si è subito dichiarato vittima di una persecuzione giudiziaria politicamente motivata, e ha annunciato il ricorso all’Alta Corte Federale, mentre la sentenza ha ulteriormente infiammato gli animi dei suoi sostenitori, e le donazioni per la sua campagna elettorale hanno registrato un’impennata. I suoi legali ostentano fiducia, spingendosi a definire la sentenza del Colorado una vera e propria manna per il loro capo.

Al di là della propaganda e delle valutazioni tattiche, la sentenza dell’alta corte del Colorado mette drammaticamente a confronto due fondamentali valori costituzionali: quello di dare agli elettori il diritto di scegliere i propri leader, e quello di garantire che nessun individuo, compresi il candidato alla presidenza e il presidente stesso, sia al di sopra della legge. Nonostante il suo indubbio ruolo nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, e negli eventi che lo precedettero, Trump è in questo momento, e di gran lunga, il candidato più favorito a conquistare la nomination del partito repubblicano, e ciò apre di fatto una crisi costituzionale mettendo i due suddetti principi l’uno contro l’altro.

Se il ragionamento giuridico della Corte del Colorado sarà confermato, hanno notato alcuni commentatori, il rispetto dello stato di diritto produrrebbe un risultato potenzialmente antidemocratico: un dilemma costituzionale che, in seguito al probabile ricorso di Trump (per ora solo annunciato), i nove giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti saranno chiamati a risolvere. E naturalmente la loro decisione avrà conseguenze che andranno oltre il collegio elettorale del Colorado, dato che simili sfide legali sull’idoneità di Trump sono pendenti in molti altri stati.

Sebbene l’attuale Corte Suprema abbia un orientamento decisamente conservatore, con una larga maggioranza di sei giudici di nomina repubblicana, di cui tre nominati dallo stesso Trump, non si può dire, ad oggi, che sia stata particolarmente ricettiva nei confronti dei suoi numerosi ricorsi. Se ne lamentò lo stesso Trump nel famigerato discorso del 6 gennaio 2021 con cui esortava i suoi sostenitori a marciare sul Campidoglio: “Non sono soddisfatto della Corte Suprema – disse – perché i giudici amano pronunciarsi contro di me”.

I costituenti americani decisero che i giudici della Corte Suprema, tutti di nomina presidenziale, ma sottoposti all’approvazione del Senato, restassero in carica a vita, nella speranza che il loro lavoro non venisse influenzato dagli altri due poteri, l’esecutivo e il legislativo. Adattare l’interpretazione della costituzione tenendo conto delle conseguenze politiche delle loro sentenze costituirebbe perciò una violazione dello stato di diritto. Per oltre due secoli il delicato sistema di check and balance (pesi e contrappesi) previsto della costituzione americana ha garantito la separazione dei poteri e il regolare avvicendamento dell’esecutivo, impedendo un’involuzione autoritaria. La sfida lanciata da Trump allo stato di diritto, con il suo far leva sulla rabbia, i risentimenti, le paure e le insicurezze di larghi settori della popolazione, è senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. I mesi a venire ci diranno se il miracolo laico della costituzione continuerà a esercitare il suo carisma, o diventerà anch’esso vittima della nuova era dell’uomo-forte.

Le vignette sono di Marian Kamensky