Dopo anni di strisciante tensione, il conflitto tra Israele e Palestina è riesploso in tutta la sua gravità con la strage compiuta da Hamas e la feroce rappresaglia messa in atto da Netanyahu. E solo negli ultimi giorni, dopo cinquanta giorni di guerra, sferrata nella striscia di Gaza dall’esercito israeliano, che ha causato quasi quindicimila morti, è dato registrare uno spiraglio di luce: la tregua concordata tra le parti, finalizzata al rilascio degli ostaggi e alla necessità di far giungere viveri e medicinali ai civili intrappolati a Gaza.
Il contenzioso tra israeliani e palestinesi risale alla fine della seconda guerra mondiale. E, dunque, per cercare di capire quello che succede in questi giorni occorre recuperare la radice storica del fenomeno. Con la necessaria postilla che, in realtà, niente si ripete uguale a sè stesso e che se l’attacco di Hamas non può essere inserito pienamente nel solco della lotta che oppone i palestinesi allo stato di Israele, lo stesso vale per la ferocia con cui il governo di Netanyahu è passato al contrattacco.
Provare a spiegare gli attuali tristissimi giorni, è il compito che si è dato la sezione dei Democratici di Bitonto che ha invitato a parlare sul tema La terra contesa il filosofo Sabino Lafasciano e lo storico Vincenzo Robles, entrambi con una lunga e significativa esperienza di impegno politico e civico, che ne rende la riflessione particolarmente interessante.
“Partiamo da una questione apparentemente collaterale, di contesto, per così dire: Asaf e Tomer Hanuka sono i due giovani fumettisti israeliani, che hanno disegnato il manifesto dell’annuale edizione di Lucca Comics, promossa, tra gli altri, dall’ambasciata di Israele. A causa di tale patrocinio, il nostro Zerocalcare non ha voluto partecipare al festival. Subito si accende la polemica, come troppo spesso avviene, ultimamente. Vero e proprio conflitto mediatico, in cui i rispettivi leoni da tastiera si contrappongono tra filoisraeliani e filopalestinesi, anzi no, filo-Hamas”, comincia Lafasciano.
“La reazione dei due autori é esemplare: la guerra vera, che stanno vivendo, impedisce loro di partecipare ad un conflitto mediatico, banalizzerebbe immediatamente quanto sta avvenendo. Eppure, soprattutto a partire dalle due ultime guerre, si riproduce sui nostri media, in particolare sui social media, una guerra di parole cariche di odio, di tutti contro tutti, dove l’importante non é ragionare sulla guerra per meglio combatterla, ma esprimere la propria opinione, tanto più rimarchevole quanto più estrema ed ottusa, con un occhio strabicamente rivolto ai like, al consenso”, prosegue il filosofo.
“Questo il clima avvelenato che respiriamo, che sembra consegnare qualsiasi dissenso dalla vulgata all’avversario. Per cui si é putinisti se si chiede una politica di pace per l’Ucraina, o si é pro-Hamas se si é contro l’attuale carneficina nella striscia di Gaza. Per esempio, buon ultimo, non si può essere contro il sionismo, o contestarlo, come se questa critica equivalesse al mancato riconoscimento dello stato di Israele. Ma non esiste un solo sionismo, anche se é dal 1947, ed anche da prima, che il sionismo porta con sé quel peccato originale, risalente proprio ai presupposti ed alle condizioni della nascita di Israele. Nel 1914 Weitzman sintetizzava l’obiettivo del sionismo nello slogan: un paese senza popolo per un popolo senza terra. E Ben Gurion, nel 1922, gli faceva eco: obiettivo del sionismo é la conquista del Paese, e la sua edificazione tramite una vasta immigrazione. Tale posizione ha fatto sì che il modello di costruzione del nuovo stato fosse quello tedesco, herderiano, fondato sull’unità di sangue e di stirpe, piuttosto che quello rivoluzionario, della Francia del 1789, fondato sul concetto di cittadinanza, e quindi di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”, riflette Lafasciano.
“Con una conseguenza di non poco conto: in Israele, in particolare in Cisgiordania ed in tutti i territori presieduti dall’autorità israeliana, anche in quelli che dovrebbero essere di competenza palestinese, esistono due leggi per due popoli, la legge ordinaria per i cittadini israeliani, ed il codice militare per gli altri. Ecco perché la parola d’ordine dei due popoli per due stati, inutilmente perseguita dalla Conferenza di Oslo sino a noi, non risponde a questo vulnus profondo nei presupposti stessi, e nelle conseguenze pratiche di quel tipo di costruzione dello stato. Sin quando non si riuscirà a costruire una democrazia di tutti i cittadini, nel migliore dei casi si ritornerà ad un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi, ad alimentare, quindi, l’ appeal dell’estremismo e del terrorismo di Hamas”, chiarisce.
E prosegue: “Non vi sarà pace senza giustizia: lo diceva chiaramente il profeta Isaia, che in 32, 15-17, lega la pace alla giustizia ed alla salvaguardia del creato. Israele non può essere solo israeliana, e questa é la sua benedizione; non può intendere il territorio come colonia di piantagione per i coloni israeliani, al di sopra, e contro, i diritti dei palestinesi. Agli errori e alle omissioni di parte israeliana hanno corrisposto errori uguali e contrari, da parte palestinese: il mancato riconoscimento del diritto ad esistere, per Israele; la proliferazione di sigle ed azioni terroristiche, in particolare a partire dagli anni ’70 del secolo scorso; l’essere influenzata, l’idea dello stato palestinese, dalle politiche, non sempre coerenti, dei paesi arabi”.
“Per questo occorre che nuove voci profetiche si alzino; che da questa immane tragedia non si esca con una pace finta, risolta nella conta dei morti e nell’odio conseguente. Per questo, con don Tonino Bello “Sui sentieri di Isaia”, non basta dire pace, perché pace sia. Occorre scommettere su una pace connotata da scelte pratiche concrete, non disgiunta dalla giustizia, attenta alla salvaguardia del creato, radicalmente non violenta, che sia “una grazia pagata a caro prezzo” (Bonhoeffer), che discenda dall’alto e non sia mai intesa come prodotto finito”, conclude Lafsciano.
“Occorre una riflessione profonda che ci liberi dall’episodio del 7 ottobre e dalle sue tragiche conseguenze. Ci liberi non nel senso che ci renda indifferenti, ma ci liberi di riflettere partendo da un episodio che non rappresenta né un punto di partenza né un punto di arrivo”, principia Vincenzo Robles.
“Quindi tutto non è iniziato il 7 ottobre e l’azione di Hamas è difficile giudicarla con sicurezza ‘atto di guerra’ o ‘terrorismo’ perché è difficile individuare la sottile linea che separa l’atto terroristico dall’atto di guerra. Oggi i nuovi mezzi di comunicazione spesso ‘manipolano’ la nostra riflessione e il nostro giudizio. E accanto ai mezzi di comunicazione anche un certo nostro integrismo ideologico spesso ci condiziona. Per la nostra “cultura occidentale”, una cultura molto spesso lontana dal dialogo con le altre culture (specialmente quelle mediorientali e orientali!) non sempre diventa possibile leggere gli avvenimenti che si sviluppano in quei territori”, riflette lo storico.
“Ad una lettura integrista occorre opporre una lettura laica o, se si vuole, una lettura ‘sapienziale’ dove ‘sapienza’ è sinonimo di ‘amore alla vita’. Non c’è solo Netanyahu e questa lettura sapienziale è presente anche in Israele: nell’elogio funebre per suo fratello Hayim, un attivista anti-occupazione che è stato assassinato nel Kibbutz Holit, Noi Katsman ha esortato così il suo paese: “Non usate i nostri morti e il nostro dolore per causare morte e dolore di altre persone o di altre famiglie. Chiedo che fermiamo il circolo di dolore e comprendiamo che l’unica via è la libertà e la parità di diritti. Pace, fratellanza, e sicurezza per tutti gli esseri umani”. Anche Ziv Stahl, direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti umani Yesh Din, sopravvissuta del fuoco infernale a Kfar Aza, si è espressa con forza contro l’assalto di Israele a Gaza in un articolo su Haaretz. “Non sento bisogno di vendetta, niente farà tornare coloro che non ci sono più”, ha scritto. “Bombardamenti indiscriminati a Gaza e l’uccisione di civili non coinvolti in questi orribili crimini non sono una soluzione”, ha spiegato”, fa notare Robles.
Che così prosegue: “Yotam Kipnis, il cui padre è stato assassinato nell’attacco di Hamas, nel suo elogio funebre ha detto: «Non scrivete il nome di mio padre su un proiettile. Lui non lo avrebbe voluto. Non dite, “Dio vendicherà il suo sangue”. Dite: “Possa la sua memoria essere una benedizione”. Michal Halev, la madre di Laor Abramov, assassinato da Hamas, in un video postato su Facebook ha gridato: «Sto pregando il mondo: fermate tutte le guerre, smettete di uccidere persone, smettete di uccidere bambini. La guerra non è la risposta. La guerra non è il modo di sistemare le cose. Questo Paese, Israele, sta attraversando l’orrore… E io so che le madri a Gaza stanno attraversando l’orrore… In mio nome, io non voglio vendetta”.
E ancora” Maoz Inon, i cui genitori sono stati assassinati il 7 ottobre, ha scritto su Al Jazeera: «I miei genitori erano gente di pace… La vendetta non riporterà in vita i miei genitori. Non riporterà indietro nemmeno altri israeliani e palestinesi uccisi. Farà l’opposto… Dobbiamo rompere il circolo”.
“Chi accusa Israele non sempre è antisemita. Difendere una identità ebraica non significa difendere israele. La lettura laica della storia dovrebbe tenerci lontani da ogni “guerra santa”. Noi cattolici dobbiamo liberarci da un pericoloso, anche se sotterraneo, sentimento di “Guerrra di Lepanto”. Una soluzione augurabile potrebbe essere quella della creazione di un unico stato arabo israeliano: difficile e “sapienziale” tuttavia”, conclude.