Come Pinocchio tra le fauci della balena

Il triste destino dell'educatore, tra l'assalto di genitori e studenti e i modelli imposti dalla società, a cui la scuola non riesce ad opporre alternative credibili

Negli istituti di ogni ordine a grado – anche in quelli in cui, grazie al “bonus scuola” è stato acquistato ogni arredo e realizzati servizi per aumentare comfort ed efficienza – a prevalere è la sensazione che ciò che conti davvero sia la classica “buona facciata”, l’elemento fondamentale di quella sfrenata competizione tra scuole, degna dei maggiori brand, che serve ad ingraziarsi le simpatie delle famiglie e raggiungere l’obiettivo di tante iscrizioni. Dalle scuole “vintage” con i muri rigati dalle crepe del tempo a quelle con frasi motivazionali stampate su ogni gradino delle scale, come nei college americani, si percepisce, ovunque, la frenesia e il gusto dell’apparire che scimmiotta la corsa ad arrivare primi. La cifra distintiva di questa nostra società.

D’altronde, scuola e società vanno di pari passo. Così vien da chiedersi se l’impostazione impressa al mondo dell’istruzione influenzi, in qualche modo, le scelte e gli stili della società oppure non sia quest’ultima ad essere entrata prepotentemente nell’istituzione scolastica. Una società variegata, problematica e così individualistica che sembra ormai “spadroneggiare” nelle scuole, lasciando gli addetti ai lavori, mortificati e impotenti, alle prese con adolescenti privi di competenze di base, come la scrittura e la lettura, e soprattutto di un’impalcatura educativa che si basi sulla necessaria distanza tra docente e discente.

Come “sorvolare” sugli studenti che, qualche tempo fa, hanno sparato con una pistola giocattolo contro il professore in un istituto superiore di Bari? Le scuole sono un concentrato di contesti e persone diversi – i ragazzi, le famiglie, i docenti, il personale – obbligati a convivere insieme per tanti anni. E al loro interno si respira una vera e propria “lotta per la sopravvivenza”, con i genitori che già all’ingresso, come “matrigne di Cenerentola”, tengono sotto scacco gli insegnanti, imbrigliati nei cavilli normativi mentre dovrebbero dedicarsi ad impartire nozioni di cultura e di vita, e a cui spesso viene vietato persino di rimproverare o riprendere gli atteggiamenti scorretti di qualche alunno. Genitori che fanno “testuggine”, come un’élite decadente, nostalgica del “maestro unico”, lasciando più o meno inconsapevolmente gli educatori in balìa delle loro giornate, trascorse in diverse classi come supporto al corpo docente, ma in realtà solo risucchiati nelle aule come nelle fauci della balena di Pinocchio, congelati da un clima freddo, ancora una volta di “facciata”.

Paradossalmente i ragazzi non hanno riferimenti stabili e forti, nonostante siano accompagnati nella crescita dai genitori e dalle numerose figure professionali (docenti, educatori, aiutanti nel doposcuola, frequentato ormai da uno studente su due). Molti genitori, in realtà, si rendono presenti nella vita scolastica dei propri figli soltanto per recriminare, magari in modo aggressivo, in relazione a qualche giudizio o voto non proprio lusinghiero.

Ma se la scuola è il riflesso del sistema sociale, dov’è il bandolo della matassa? E continuando: se da un lato i progetti-spot promossi dalle scuole e dagli altri enti di formazione investono i ragazzi di ulteriori input cognitivi, dall’altro dove sono finite le irrinunciabili “classiche regole” . I gruppi whatsapp dei genitori diventano il luogo di duelli verbali e polemiche speciose, che pretendono di rendere giuste pretese diseducative che dovrebbero sostituire il lavoro degli insegnanti.

Un gruppo di genitori ha chiesto, recentemente, al dirigente di una scuola del quartiere Libertà di Bari il trasferimento dei propri figli in un’altra classe, perché in quella dov’erano c’erano troppi stranieri; alcuni dei quali, peraltro, nati n Italia. Ma la richiesta, che ha fatto molto scalpore sulla stampa, non è stata accolta, com’era giusto che fosse: “Ai genitori -ha spiegato il preside Marchitelli- ho risposto che, se vogliono, possono chiedere il nulla osta per far cambiare scuola ai propri ragazzi. Ma sin tanto che questi rimangono in questa scuola, le cose non cambieranno”.

E come non ricordare quel genitore che lo scorso anno scolastico ha aggredito il docente di Lettere a causa di un brutto voto preso dalla figlia? O l’episodio dei due brutti ceffi che, entrati in aula, hanno schiaffeggiato il professore che aveva osato rimproverare un’alunna?

Le lamentele e le continue pretese dei genitori nei confronti degli insegnanti generano un marasma che, in realtà, finisce col disorientare gli stessi bambini o adolescenti. Per non dire della loro eccessiva invadenza per accontentare o coprire le responsabilità dei propri figli. Pensando di tutelare il proprio bambino escludono la possibilità di collaborare con gli insegnanti che magari consigliano percorsi specifici per la crescita e il benessere psicofisico dell’alunno. Mettendo a repentaglio lo sviluppo stesso dei ragazzi, i genitori preferiscono rifiutarsi di capire che i figli possono essere affetti da difficoltà cognitive o comportamentali che possono diventare patologiche. Sottovalutano anche solo l’ipotesi di prevenire alcuni scompensi dei figli, che avrebbero bisogno di sostegno e delle cure di una rete educativa collaborativa.

Indubbiamente nei genitori influisce un senso di vergogna, che nella società dell’apparenza, in cui i giovani sono vittime di una “partita all’omologazione”, assume il sapore di una sconfitta. Ma a quale costo? Perchè non ammettere il problema invece di allinearsi alla logica di una società in cui conta solo vincere? Agendo in tal modo si fa veramente il bene del bambino? Perchè non ascoltare i consigli degli insegnanti di provare almeno a capire se per un bambino sia il caso o meno di seguire delle terapie non obbligatoriamente farmacologiche. Si assiste alla prepotente superficialità di tanti genitori che delegano all’istituzione scolastica le dinamiche educative che le competono, ma che prima di tutto spettano alla famiglia. Eppure, proprio la rete delle relazioni e del contesto educativo faciliterebbe la presa in carico dei problemi che spesso le famiglie “non vedono”.

E’ vero, le classi ormai sono abitate contemporaneamente da molte figure oltre che dall’insegnante: figure che, in qualche modo, possono generare una certa confusione. Ma la pluralità di “educatori” è dovuta alla diversa gamma di personalità e problematiche rappresentate dagli alunni presenti in un’aula, sottoposti a stili di vita stressanti nel bene o nel male. La concentrazione e l’apprendimento possano certo diminuire a causa di elementi distrattivi, collegati magari anche alla presenza di più figure adulte. Ma nella maggior parte di casi si lavora in team nel nome della multidisciplinarietà, realizzando strategie che rendano i discenti più autonomi nell’apprendimento e che possano favorire l’integrazione e la collaborazione. I banchi in cerchio, i piccoli gruppi studio o la gestione del cambio d’aula della classe in base alla materia prevista dal calendario, rappresentano situazioni facilitatrici.

Gli insegnanti sono chiamati ad essere sempre più empatici con gli alunni, a gestire non solo il rendimento scolastico ma, soprattutto, a escogitare metodologie innovative e più smart. La loro antica autorevolezza, riconosciuta da intere generazione, è messa a dura prova. Talvolta agiscono con rassegnazione difronte agli ostacoli che si presentano all’interno dell’aula e, in un’inconscia lotta per preservare il proprio status, appaiono poco accoglienti con le figure di contorno, come gli educatori, l’ultima ruota del carro del sistema, letteralmente buttati tra le “fauci” dei ragazzi, consapevoli dalla loro precaria posizione professionale.

Gli educatori, posti accanto all’alunno di turno che osserva stupefatto l’ennesima figura educativa, gettati in quella mischia anche per un solo giorno, stanno al limite tra l’osservazione e l’azione, costretti a dimenarsi tra i comportamenti problematici di un ragazzo mai visto prima e il dubbio sull’utilità del proprio lavoro. Dovendo sopportare, in qualche caso, “l’ostilità” dello stesso ragazzo, ringalluzzito dalla consapevolezza che il suo tutor starà con lui solo per poco tempo.

In questo limbo educativo, i preadolescenti e gli adolescenti “sguazzano” in balia di regole poco chiare e non uniformi, gestite in modo fin troppo individualistico: così tra la scuola che deve garantire la propria immagine e genitori “adolescentizzati”, i ragazzi restano soli nelle dispute e nei conflitti che non gestiti come momento di crescita hanno esiti, purtroppo, scontati. Come l’aggressione di due giovani contro un loro coetaneo all’esterno di un istituto superiore di Bari o gli atti vandalici all’interno di una chiesa di un gruppo di studenti all’uscita di una scuola nella provincia barese.

Ma in questa “lotta quotidiana per la sopravvivenza”, dietro atteggiamenti di forza o di remissività, in cui tutti si sentono autorizzati ad imporre il proprio punto di vista e un po’ meno a condividerlo, è possibile educare alla fragilità? Il compito è difficile ma non vi si può rinunciare: si tratta di una “competenza” da far acquisire per offrire prospettive reali e per il bene comune di tutti coloro che vivono nella scuola.