La tenerezza dell’abbraccio, la fermezza della fede

Dall'approdo al Crocifisso cinquant'anni fa alla preghiera sulla tomba di mons. Bello, l'impegno pastorale di don Vincenzo Cozzella nel segno di un vangelo pienamente vissuto

Il sorriso e gli occhi teneri sono la cifra di don Vincenzo. Da quando lo conosco; da quando frequentavo le scuole medie e lui era il mio insegnante di religione. Ancora oggi, a ottantadue anni, don Vincenzo conserva intatto tutto il candore, la tenerezza, la semplicità di allora. Un’infinita, proverbiale disponibilità all’ascolto, fatta di inviti, di silenzi – in attesa che il flusso delle parole riprenda liberamente tra le gole dell’emozione – seguiti da ampie e profonde riflessioni e, ancora, da nuove, ripetute esortazioni ad aprirsi, a riflettere, a capire, incorniciate da lenti, larghi e generosi sorrisi.

“Quando sono arrivato in questa chiesa era il lontano 1975. Quasi cinquant’anni fa. Ero l’aiutante di mons. Francesco Fornelli, parroco di San Silvestro: una parrocchia con il cuore antico nel nucleo storico e un’appendice – il Crocifisso – nella periferia a sud ovest, in rapida e tumultuosa crescita”, comincia.

“Ho studiato prima al seminario di Bitonto e poi a Molfetta, dove ho frequentato il primo liceo classico. Ma se guardo indietro, agli anni della mia prima formazione, devo confessare che non mi era chiaro quale fosse davvero l’orizzonte della mia missione. La consacrazione a sacerdote, il 26 giugno 1966, è stata come una nuova nascita: il dischiudersi di una più avvincente, più autentica prospettiva dell’impegno e del fine a cui ero chiamato. Una nuova alba, propiziata dal bagliore di un’esperienza così profonda, radicale e istruttiva qual è stato il Concilio Vaticano II, con i suoi infiniti e sorprendenti stimoli e le sue salvifiche provocazioni”, prosegue.

In questi giorni don Vincenzo Cozzella lascerà il Crocifisso per raggiunti limiti di età. Il suo impegno pastorale proseguirà, tuttavia, nella chiesa di San Francesco da Paola, al centro della città, a fianco e a sostegno del giovane parroco don Francesco Spierto.

Uno snodo cruciale non solo nella vita del sacerdote ma anche in quella dell’intera comunità del Crocifisso, legata alla sua guida spirituale, per molti decenni, oltre che dalla condivisione di una proposta evangelica radicalmente innovativa – anche se, in realtà, assolutamente aderente al senso più profondo delle scritture – da un affetto e da una stima straordinari, costruiti su rapporti di piena accettazione, incondizionata lealtà e sincera cura.

“Il concilio aveva annunciato inediti orizzonti. I vescovi di tutto il mondo avevano individuato alcune sostanziali novità sull’interpretazione dei testi biblici, che non poteva più prescindere da un’analisi storico-critica. La bibbia, i vangeli non sono un libro di storia ma un libro di fede. È la fede che deve animarne la lettura”, chiarisce il parroco. Un concetto che costituisce il mantra di ogni sua omelia: “I vangeli sono stati scritti negli anni ‘70 del primo secolo, quarant’anni dopo la morte di Gesù: non sono la cronaca della vita e degli atti del Signore ma un racconto di fede, fatto da chi – gli evangelisti, gli apostoli – ha raccolto una tradizione orale, sviluppatasi negli ambienti delle prime comunità cristiane”.

“In realtà – prosegue don Vincenzo, tornando al concilio – anche la spinta propulsiva dei documenti redatti dai vescovi a San Pietro era destinata ad esaurirsi. Le idee che erano cominciate a circolare, i nuovi linguaggi biblici e teologici dovevano fare i conti con le ‘certezze’ radicate, l’incomprensione dei fedeli, le resistenze a cambiare prospettiva: come la visione apocalittica delle scritture, con le loro infinite e laceranti profezie di fine, di morte, di punizioni e castighi. L’effetto di un Dio inteso come un signore dispotico, che soffre di gelosie, di risentimenti, persino di collera. Proprio come un essere qualunque. Un Dio costruito ad immagine e somiglianza degli uomini: tutto il contrario del racconto della genesi”.

Ma torniamo all’attualità di questi giorni. Il parroco del Crocifisso è stato per dieci, lunghi lustri, l’anima, il cuore pulsante di una comunità popolosa, percorsa da grande dinamismo ma venata pure da profonde contraddizioni: un quartiere caratterizzato da uno sviluppo edilizio caotico, con decine e decine di fabbricati addossati gli uni agli altri, senza verde o spazi destinati alla socialità; famiglie con bilanci risicati, strette nella morsa della crescente disoccupazione, con la crisi dei modelli tradizionali e i giovani in cerca di una nuova identità, ai quali non è stato facile proporre l’esperienza di una vita vissuta nella pienezza del messaggio cristiano.

“A questi giovani mi sono avvicinato in punta di piedi, con la franchezza e l’amicizia di un fratello maggiore, evitando il moralismo e la saccenza ma indicando una strada da percorrere: quella dell’impegno, della solidarietà, dell’amore universale, dell’abbandono fiducioso nella misericordia di Dio. Anche il valore particolare attribuito al canto e alla musica – riprende il parroco – risponde alla volontà di coinvolgere pienamente i fedeli, e i giovani soprattutto, nella liturgia e nella professione di fede. Anche questo, in realtà, un germe fecondo del Concilio Vaticano. Un’autentica rivoluzione se pensiamo all’epoca precedente, quando ai fedeli era consentito esprimere la propria voce solo nella dossologia finale dell’amen; una liturgia imposta, distante, contraria all’idea che la messa è celebrata dall’intera comunità dei credenti non solo dal sacerdote”. “Un’idea che a guardare bene, nonostante il concilio – riprende – stenta ancora ad affermarsi, col prevalere di una diffusa presunzione da parte dei ministri ordinati, sacerdoti e vescovi, di essere gli unici ‘titolari’ di quella celebrazione che invece spetta all’intero popolo di Dio”.

Un’idea “forte”, per quanto del tutto “naturale”, che si sposa con la personale propensione di don Vincenzo  a scremare di ogni orpello la realtà sacramentale della celebrazione eucaristica e, insieme, la pratica devozionale, legata spesso a forme e riti desueti o ridondanti, con l’obiettivo di riportare la fede e la sua professione al senso più autentico e originario. Un orizzonte che trova fondamento nell’abbandono in un Dio che è amore assoluto, pura entità spirituale, fuori da ogni logica “mercantile” e “utilitaristica” di buone azioni, di sacrifici, di dazioni economiche da parte dei fedeli in cambio di sguardi particolarmente generosi o addirittura preferenziali dall’alto dei cieli.

“Dio è Dio; l’ente supremo per definizione. Dio non ha bisogno della collaborazione degli uomini per affermare la propria deità. Sono gli individui che possono decidere consapevolmente se rientrare nel piano provvidenziale o rimanerne fuori. Se ci impegniamo a realizzare il bene non lo facciamo perché possa tornarci utile, perché possa servire a conquistarci un titolo preferenziale nella speciale classifica degli uomini che ambiscono ad entrare nel regno dei cieli. Il regno di Dio è qui in terra. È qui, tra i nostri fratelli; ai quali siamo chiamati a dare il nostro contributo in termini di solidarietà, di ascolto, di dialogo, di dono”, spiega.

Una prospettiva, quella della “immanenza” di una vita vissuta in maniera “autenticamente” cristiana, sulla quale si sono registrate le maggiori, ma in realtà forse le uniche diffidenze da parte di alcuni fedeli come pure di una certa opinione pubblica, nei confronti dei lunghi e densi anni di catechesi del parroco. L’idea che in questa sua proposta di fede si annidasse il rischio di ridurre la religione ad una delle tante dottrine sociali che affollano l’orizzonte temporale di questo mondo.

“Quando papa Giovanni XXIII indisse il concilio, una delle prime esortazioni che rivolse ai padri conciliari fu che i resoconti di quell’assemblea non fossero espressi, come i precedenti, in forma di dogma, ma come proposizioni in cui credere, da indicare alla riflessione del popolo di Dio”, riflette il parroco.

“La mia catechesi in questi anni è stata solo biblica: nè storia nè morale. Con l’obiettivo di giungere a una conoscenza più vera del Dio Gesù Cristo. Il documento Dei Verbum, seguito al tentativo di riforma messo in campo dal concilio, è stato di straordinaria importanza. Ma, in realtà, è risultato quasi incomprensibile da parte di tutte le comunità cristiane l’invito in esso contenuto ad abbattere le frontiere, ad usare metodi più scientifici e meno mitologici nell’analisi delle scritture. È l’approccio nel quale mi hanno confortato le riflessioni di alcune singolari personalità: il biblista padre Ortensio da Spinetoli e padre Alberto Maggi con le loro note di commento al vangelo. Con l’invito ad abbattere tutti i muri della tradizione scolastica per abbracciare orizzonti nuovi, in cui incorniciare nel loro autentico significato e valore i testi sacri, con i loro contenuti storici ma anche con quelli mitizzati e manipolati dalla tradizione popolare”, osserva.

“Leggendo gli scritti di padre Ortensio hai la sensazione – riprende – che la forza dirompente dello spirito abbia ormai incrinato gli otri vecchi del cristianesimo occidentale. Che non bastino più restauri o rabberciature per utilizzarli. La chiesa più che pavoneggiarsi per le glorie del passato deve tornare alle sue umili origini. Più che maestra di verità e dottrine, deve essere attenta a segnalare agli uomini la voce, il messaggio di Dio”.

Negli anni trascorsi al Crocifisso, don Vincenzo si è rivolto ad una comunità parrocchiale molto estesa e diversificata; con cui relazionarsi, graduando di volta in volta l’interazione, a seconda delle capacità, delle propensioni, delle prospettive di ognuno. Con l’obiettivo di porgere e far accogliere il messaggio del vangelo. “Una comprensione a cui ha contribuito – spiega – la bellezza di questa chiesa, che come succedeva nel passato, ha svolto la funzione, con gli splendidi affreschi di Carlo Rosa e le recenti opere di Vito Cotugno, di far rispecchiare la platea dei fedeli nei volti e nelle posture mentali dei personaggi rappresentati”.

Certo non è stato né semplice né rapido il processo di inserimento in quella realtà cittadina: un quartiere esposto, peraltro, a diversi focolai di criminalità, accentuati dalla presenza di diverse famiglie che contano in quel giro.

“Negli anni ‘70 avevamo creato in parrocchia un centro d’intervento per scongiurare derive pericolose tra i giovani, appartenenti o vicini ad ambienti operanti ai margini della legalità. In quel frangente mi sono avvalso dell’esperienza maturata con la tesi di laurea in pedagogia: uno studio sul ruolo delle agenzie educative che ho cercato di applicare, con l’aiuto di giovani e adulti della parrocchia, nei confronti di una trentina di ragazzi bisognosi di aiuto. Il pomeriggio facevamo doposcuola e poi dopo tante attività: pittura, canto, animazione. Un impegno portato avanti con passione e con la fiducia radicata nelle possibilità di riscatto di quei ragazzi. Ricordo ancora la faccia di mia madre quel giorno che decisi di portare a pranzo una ventina di loro”, racconta il parroco, inondando le guance di un sorriso pieno di affetto e di riconoscenza nei confronti dell’anziana donna.

Un grande fermento culturale e sociale, dunque, condotto in parallelo alle attività più propriamente catechetiche e formative. Una particolare effervescenza che aveva reso necessari, nel corso degli anni, spazi più adeguati. Così, a metà degli anni ‘80, grazie alla sensibilità di alcuni imprenditori e alla partecipazione dei fedeli, furono realizzate le aule per il catechismo e un salone per le attività comunitarie, compreso il teatro in vernacolo che conobbe tante stagioni di successo.

Un capitolo a parte merita l’ex convento dei cappuccini, la vecchia casa di riposo in fondo a via Traetta, che la parrocchia era riuscita a riscattare dalla proprietà del comune. Sottoposto ad un accurato restauro, durato parecchi anni, con le antiche celle trasformate in accoglienti stanzette, e utilizzato per attività catechetiche ma anche per diversi laboratori da tante signore del quartiere. E ancora, col grande salone al primo piano, dove, di tanto in tanto, si sono svolti importanti convegni, e con i campi da gioco per i ragazzi del quartiere. “Si potrebbe confidare in ulteriori interventi per completare il restauro e rendere la struttura fruibile al cento per cento. Ritengo che la destinazione più giusta sia, tuttavia, un centro per ritiri spirituali. Ma di questo si occuperà don Fabio Carbonara che prenderà il mio posto alla guida della parrocchia”, riflette don Vincenzo.

Ma in realtà c’era un altro progetto a cui il parroco e la sua comunità avevano riposto molte speranze: una nuova aula liturgica, in cui celebrare le cerimonie più affollate e dar luogo ad ulteriori attività oratoriali, a poche centinaia di metri dalla chiesa del Crocifisso, nella zona di cerniera tra la vecchia periferia e la nuova espansione edilizia. “L’idea traeva fondamento – spiega il parroco – dalla proprietà di un terreno donato al Crocifisso quarant’anni fa. Come tutti sanno era stata avviata una raccolta di fondi. Ma quando il progetto è sembrato vicino a realizzarsi, le autorità ecclesiastiche hanno deciso di investire in altre opere la propria parte di fondi destinati al progetto”.

Un peccato. Un’occasione mancata. Perché quell’aula era destinata a produrre nuova linfa, in termini di socialità e cultura, oltre che di nuova evangelizzazione, in una porzione così delicata e complessa della città. Un’autentica e significativa opportunità, il cui “diniego” ha confermato una certa distanza della curia dalle scelte e dal destino della parrocchia.

Una dinamica, in realtà, diversa rispetto a quella con il locale ceto amministrativo. “Posso dire di avere avuto la fortuna di dialogare con tutte le personalità politiche, che in realtà hanno sempre riconosciuto a me e a questa comunità un ruolo sociale fondamentale”, osserva il parroco. “Non c’è dubbio, tuttavia, che in questi tempi resta difficile scorgere tra quanti sono chiamati ad amministrare la città degli autentici “sognatori”: persone capaci di donarsi senza riserve al servizio e all’interesse della città. Vedo prevalere più spesso interessi particolari se non addirittura personali. Così, nella mia memoria continuano ad occupare un posto di rilievo alcune figure del passato: Domenico Saracino, Ottavio Leccese, Carmine Gallo che si riconettevano nel loro modo di intendere la politica, la città e la società a personaggi carismatici come Giuseppe Lazzati o Giorgio La Pira.”

E in questo momento di bilanci, qualche riflessione merita pure il rapporto dialogico con la stessa “classe” dei sacerdoti e col clero in generale. “Questo è un aspetto che mi lacera: io mi sono rifatto ad un filone teologico che era necessario intraprendere in questo momento storico. Mi rammarica l’impossibilità o l’incapacità di aver fatto accettare una lettura approfondita della Dei verbum: ci sono punti diversi di osservazione attraverso cui guardare la bibbia, il vangelo. Se le scritture sono intese come un dogma è difficile che si possano trovare punti di contatto. Anche il papa si è chiesto ultimamente: ‘ma la bibbia è parola di Dio? O è parola anche degli uomini’. Io mi considero un errante. Quando mi incontro con gli altri sacerdoti ho spesso la sensazione che si parlino due linguaggi diversi, pastorali e liturgici. Dio è l’ampiezza dell’amore, della positività, sine modo come dice mons. Bello”.

Ed è proprio a don Tonino che don Vincenzo rivolge il suo pensiero prima di lasciare la chiesa del Crocifisso. Qualche giorno fa, lontano da ogni forma di adulazione o di esaltazione personale, sono stati davvero in tanti a voler accompagnare il loro parroco in un pellegrinaggio sulla tomba del vescovo ad Alessano. La conclusione più coerente del singolare viaggio pastorale. “Ritrovarmi con tutta la mia amata comunità in quel luogo così particolare, avvertendone forte e chiaro l’affetto e la stima è stato per me il più bel regalo: la consapevolezza di essere riuscito a testimoniare una fede autentica, basata sull’amore incondizionato per gli altri, è la ricchezza più grande che mi accompagnerà per sempre”, afferma don Vincenzo. 

Ora per lui si apre un nuovo capitolo: “Il mio desiderio è continuare a fare incontri biblici, a spiegare il vangelo come ho sempre fatto in questi anni. In accordo, ovviamente, con il parroco di Santa Caterina e con le necessità della nuova parrocchia. L’obiettivo rimane lo stesso: cercare di avvicinare il vero volto di Dio. La missione a cui mi dedico da sempre. Penso che sia nei piani del cielo il mio impegno sino alla fine per la conversione personale delle anime”, conclude. Mentre lo stesso sorriso ingenuo e disarmante con cui abbiamo avviato l’intervista, riaffiorato di tanto in tanto tra i passaggi e qualche “strettoia” del nostro dialogo, si espande contagioso sulle ampie gote rosee. La promessa di un impegno che si rinnova. La conferma di una fiducia e di un amore senza confini.

Nelle foto di Nuccio Ruggiero, don Vincenzo con la comunità del Crocifisso nel pellegrinaggio alla tomba di mons. Antonio Bello nel cimitero di Alessano